Mine vaganti (2010)

Lecce, 2010. La famiglia Cantone, proprietaria di un rinomato pastificio industriale, si prepara ad accogliere il secondogenito Tommaso (Riccardo Scamarcio), di ritorno da Roma fresco di laurea in Economia: dovrà affiancare il fratello Antonio (Alessandro Preziosi) nella nuova gestione dell’azienda prevista da papà Vincenzo (Ennio Fantastichini), severo e rigido nei suoi retaggi da pater familias vecchio stampo, ancorato a tutte quelle apparenze inclini a preservare la facciata del “buon nido borghese”. Mamma Stefania (Lunetta Savino) asseconda l’andamento familiare, zia Luciana (Elena Sofia Ricci) trova conforto in qualche bicchierino di troppo e in amanti occasionali che entrano nella magione nottetempo, furtivamente, la sorella Elena (Bianca Nappi) si limita a badare alle due figlie e al marito Salvatore (Massimiliano Gallo), il quale aspirerebbe ad un ruolo più definito in azienda. Vera e propria mina vagante è invece la nonna paterna (Ilaria Occhini), prigioniera del ricordo di un amore impossibile, che volge a tutto e tutti uno sguardo apparentemente benevolo e disincantato, elargendo considerazioni sprezzanti insieme ad opportuni squarci di concreta saggezza. Tommaso nasconde più di un segreto: non si è laureato in Economia, bensì in Lettere, aspira a divenire scrittore, ed è omosessuale. Confida quindi al fratello che nel corso dell’imminente cena in cui sarà ospite Brunetti, socio del padre, avrebbe intenzione di chiarire ogni cosa, costringendo il genitore a mandarlo via, troncando ogni rapporto familiare e lavorativo. Ma la sera fatidica qualcuno, inaspettatamente, gli ruberà la scena, causando un infarto a Vincenzo, per cui il nostro sarà costretto a restare a Lecce e ad occuparsi degli affari insieme alla giovane figlia di Brunetti, Alba (Nicole Grimaudo), anche lei con i suoi bravi rovelli interiori, tanto da essersi autoesclusa dal novero sociale…

Riccardo Scamarcio (Movieplayer)

Presentato nel 2010, fuori concorso, alla 70ma Berlinale, Mine vaganti rappresenta all’interno della filmografia del regista Ferzan Özpetek il passaggio, sempre mantenendo uno stile piuttosto autoriale e composto, verso i toni della commedia e della farsa. Affiancato nella sceneggiatura da Ivan Cotroneo, Özpetek assicura alla narrazione un’equilibrata coralità, garantita quest’ultima anche dalle ottime interpretazioni dell’intero cast. Inoltre a far da proscenio al racconto non vi è Roma, bensì Lecce, fotografata da Maurizio Calvesi nel suo caldo barocchismo, vivida di luci e colori, quindi solare ed accogliente, luminosità contrastante però con quel buio costituito dall’atavico rispetto delle convenzioni sociali e degli opportunismi, dove l’apparenza funge da confortante ed ipocrita bambagia protettiva nell’avallare la morale comune, solido muro di perbenismo costruito mattone su mattone in nome della parvenza sociale immacolata e rispettabile. Su tale sfondo si staglia sempre nitida la poetica di stile propria di Özpetek, ovvero la deflagrazione improvvisa, i cui effetti andranno a delinearsi progressivamente con un effetto domino, determinata dalla manifestazione di una diversità (nell’atteggiamento esistenziale ancor prima che nelle scelte sessuali) all’interno di una realtà precostituita, comportante lo stravolgimento delle regole e lo svelamento di varie falsità. Ecco allora che il regista ci prende per mano, conducendoci in un ben congegnato percorso narrativo, volto a far venir fuori tutta l’ipocrisia e la meschinità di un mondo, non solo provinciale, intento a sbandierare la normalità (“che brutta parola”, commenta la nonna, con fare fra l’indispettito e il sornione) come conquista, dimentica della gioia di vivere e di esprimersi al meglio delle proprie potenzialità, assecondando desideri e convinzioni.

Lunetta Savino, Ilaria Occhini, Elena Sofia Ricci, Scamarcio, Alessandro Preziosi (Movieplayer)

Il tutto senza rinunciare ai consueti “marchi di fabbrica” (i frequenti piani sequenza, le tavolate, ora avvolte da riprese circolari, gli sconfinamenti in favore del melodramma), ma anche abbandonando il formalismo, la correttezza, a tratti anche il buon gusto, giocando sfacciatamente con i luoghi comuni e il macchiettismo (la visita degli amici gay, ognuno calato in un determinato stereotipo, con tanto di balletto al mare). La diversità di cui la narrazione si fa bandiera, riprendendo quanto già scritto non è solo quella sessuale, bensì soprattutto quella espressa dal proprio “io” interiore, l’appagamento proprio di quanti riescono a voler bene dapprima a se stessi e poi, di conseguenza, agli altri, in nome dell’accettazione reciproca di quel che si è, senza tener conto di ciò che possa apparire agli occhi di quanti non mancheranno di apporre etichette o esternare stravaganti denominazioni. Di tutto ciò si rende mentore lo splendido personaggio della nonna, cui Ilaria Occhini offre un’intensa e toccante interpretazione, con una presenza scenica al solito discreta, elegante, ma realistica nel rendere il disincanto proprio dell’anziana donna, vero e proprio fil rouge dell’intero arco narrativo. E’ lei infatti a concretizzare un congruo collegamento tra memoria ed indagine introspettiva (la splendida sequenza finale, quasi una sospensione volta alla visionarietà), unendo passato e presente, quel che è stato, quanto succede ora e quel che si verificherà una volta concluso il viaggio spazio/temporale, del tutto in simbiosi con la propria intimità. Oltre all’interpretazione di Ilaria Occhini, da ricordare anche quella di Scamarcio, nel rendere il personaggio di Tommaso tormentato ed accomodante al contempo, e poi quelle di Fantastichini e Savino, nel dare spazio a due diverse modalità esistenziali di reagire agli scossoni impartiti allo status quo ante dalla vita, consentendo un adattamento inedito di quanto Tolstoj scriveva nella prefazione di Anna Karenina, ovvero se tutte le famiglie perfette si somigliano, quelle imperfette si differenziano per essere necessariamente felici a modo loro.

Scamarcio ed Ennio Fantastichini (Movieplayer)

Rilevante poi il personaggio della zia Luciana, fra sommessa ironia e dolente disadattamento (“E’ più faticoso stare zitti che dire quello che si pensa”), reso con naturalezza da Elena Sofia Ricci. Suggestiva infine la colonna sonora, composta da Pasquale Catalano, al cui interno sono inseriti, fra l’altro, brani di Patty Pravo (Sogno, composta per il film, Pensiero stupendo), Nina Zilli (50mila), Sezen Aksu (Kutlama), del tutto funzionale al narrato e capace di reggere anche qualche digressione narrativa (come nella sequenza del citato balletto al mare improvvisato dagli amici di Tommaso, sulle note di Sorry I’m A Lady, Baccara, 1977) nella composizione a tratti grottesca di una commedia “alla Germi” (vedi la sequenza del dialogo in piazza fra Tommaso il padre), almeno nelle linee essenziali della combinazione fra farsa e dramma familiare. Nel 2020 Özpetek ha dato vita ad una riduzione teatrale del lungometraggio, realizzata per la compagnia Nuovo Teatro di Marco Balsamo, in collaborazione con la fondazione Teatro della Toscana, che vedeva fra gli interpreti Arturo Muselli, Francesco Pannofino e Caterina Vertova.


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