Presentato, in Concorso, alla 78ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, dove ha conseguito tre premi collaterali (Premio Francesco Pasinetti per la Miglior Interpretazione Maschile a Toni Servillo; Premio Fondazione Mimmo Rotella a Mario Martone e Toni Servillo; Premio La Pellicola d’Oro per la Miglior Sartoria Cineteatrale alla Sartoria Tirelli), Qui rido io, diretto da Mario Martone, anche autore della sceneggiatura insieme ad Ippolita Di Majo, è un’opera che, nel mettere in scena la folgorante ascesa del commediografo napoletano Eduardo Scarpetta e l’altrettanto repentino affievolirsi delle luci della ribalta, rifugge, fortunatamente, il genere biografico propriamente detto, magari nella “variante santino” a snocciolare vita, morte e miracoli. Grazie al sinergico lavoro scaturente da regia, scrittura, recitazione, fotografia (Renato Berta), scenografia (Giancarlo Muselli e Carlo Rescigno) e costumi (Ursula Patzak), senza dimenticare trucco (Alessandro D’Anna) e parrucco (Marco Perna con la collaborazione di Andrea Signoretti), la narrazione riesce invece a visualizzare una lucida e pregnante analisi relativa alla commistione fra arte e vita, sul significato da attribuire al “fare spettacolo”, ricercando a tale ultimo riguardo il consenso del pubblico quale congrua panacea satisfattiva per il proprio ego, arrivando poi a toccare argomentazioni sempre attuali, quali la portata artistica di una comicità farsesca ed irridente posta a confronto con quella propria di una rappresentazione sempre più veritiera della realtà, o sul concetto di paternità, tanto di una realizzazione che si appropria dei contenuti di un lavoro altrui, pur se per metterli alla berlina, quanto, soprattutto, all’interno di una famiglia inquadrabile nell’ottica di una visione oltremodo allargata.
“Tutto il mondo è un palcoscenico e tutti gli uomini e le donne solamente degli attori. Essi hanno le loro uscite e le loro entrate. Ognuno nella sua vita recita molte parti…” (William Shakespeare, As You Like It, 1599-1600, atto II, scena VII) e lo stesso può dirsi per Eduardo Scarpetta (Toni Servillo), al culmine del successo nella Napoli della Belle Époque, grazie alla scrittura e alla regia di commedie quali Miseria e nobiltà, ispirate alla pochade francese, dove impersona Felice Sciosciammocca, erede dell’ormai soppiantato Pulcinella nel dare ora voce non più ad una plebe persa fra squallore ed opportunismi, bensì ad una borghesia arrembante, desiderosa di elevarsi socialmente, i cui rappresentanti assisi in teatro prorompono in sonore risate a vedere sbeffeggiati i loro stessi vizi e le loro magagne. E poi vi sono i figli, avuti da donne diverse, legittimi e non, che si succedono nel ruolo del piccolo Peppeniello, da Vincenzo (Eduardo Scarpetta) a Titina (Marzia Onorato), fino ad Eduardo (Alessandro Manna) e al riottoso Peppino (Salvatore Battista), cresciuto in campagna da una balia, ad interpretare un bambino che per necessità deve riconoscere come padre un’altra persona (Vincenzo m’è pate a me!) per poi abbracciare il vero genitore, ovvero quel citato Sciosciammocca interpretato da colui che i tre De Filippo, figli dell’amante Luisa (Cristiana Dell’Anna), nipote della moglie Rosa (Maria Nazionale), nella vita di ogni giorno chiamano “zio”. Dalle tavole del palcoscenico alle sontuose stanze di Palazzo Scarpetta, la recita sembra seguire un flusso ininterrotto: nel rango del padre ufficiale o dello zio di forma, Eduardo, personalità prorompente e vorace, pretende da ognuno massimo rispetto e pedissequa accondiscendenza.
Vede nella numerosa prole, cui comunque riserva, fra sonori ceffoni ed imposizioni, qualche accortezza (ad esempio indirizza le figlie allo studio, asseconda l’inclinazione del piccolo Eduardo a riscrivere i suoi copioni o a mettere su carta i propri), una prosecuzione della propria arte e del proprio modo d’essere, una sorta di garanzia per l’immortalità e la gloria imperitura. Ma l’onda dello strepitoso successo, anche al di fuori della città di Napoli, andrà presto ad infrangersi sugli scogli della presunzione di poter proporre agli spettatori qualsiasi cosa in nome della risata subitanea e del facile applauso, immaginando il riscontro che potrebbe avere una parodia della tragedia La figlia di Iorio scritta da Gabriele D’Annunzio (Paolo Pierobon), il quale nel corso di un incontro con Eduardo sembra accondiscendere alla sua rappresentazione. Ma il giorno del debutto le disattenzioni della prima attrice nel recitare la parte saranno occasione per alcuni intellettuali vicini al Vate di scatenare un putiferio, gridando al plagio, fino ad arrivare al rinvio a giudizio ad opera della Società Italiana degli Autori ed Editori per contraffazione, procedimento che andrà avanti per quattro anni. La diatriba si concluderà col riconoscimento dell’arte parodica di Scarpetta, il quale però, pur avendo esternato in tribunale un magistrale colpo di reni all’insegna di uno sfrenato e ritrovato istrionismo, non tarderà a riflettere sull’inevitabile incedere del tempo, fra cafè chantant e cinematografo, nonché sull’incapacità di proporre nuovamente qualcosa di propriamente inedito, in linea con le nuove tendenze, paventando anche un possibile insuccesso, come sottolinea Benedetto Croce (Lino Musella), fra i sostenitori della linea di condotta del nostro.
Martone nel dirigere Qui rido io, titolo ripreso dalla frase posta in caratteri dorati sulla facciata della tenuta al Vomero Na Santarella, messa su da Scarpetta coi proventi dell’omonima commedia, contorna le vicende del comico partenopeo con i toni di una napoletanità conclamata (le canzoni tradizionali che accompagnano l’iter narrativo o sottolineano determinate sequenze), verace nel suo lasciar scorrere, potendo contare su di un Toni Servillo in stato di grazia recitativa, incline a coniugare la propria attorialità con quella di Scarpetta, rimarcandone, come in un gioco di specchi, la stretta e simbiotica correlazione fra l’uomo e l’artista. La parte più coinvolgente del film, almeno a mio avviso, è quella che vede Scarpetta di fronte all’insuccesso inaspettato, alla mancata accettazione “universale” di una propria realizzazione, dovendo ora fare i conti con quanto, nella quotidianità e sul palcoscenico, la sua figura va a rappresentare, nel bene e nel male, affrontando l’inevitabile arresto dell’esperienza terrena: così come ha “ucciso” Pulcinella, ora dovrà mettersi da parte e “far fuori” Felice, ritrovando forse definitivamente se stesso, come sublimato dalla bellissima sequenza che lo vede passeggiare in solitaria fra i vicoli della Napoli notturna, fino a giungere sul palcoscenico del teatro che ha visto andare in scena le sue rappresentazioni. Qui, avvolto dalle nebbie di un sogno ad occhi aperti, avrà luogo il necessario confronto con se stesso, con ciò che è stato, quel che ora è e cosa sarà, inevitabilmente, un giorno, accettando a denti stretti di essere ormai parte di un mondo destinato ad essere soppiantato dalla “morale dei tempi nuovi”, per cui non è detto che un figlio debba necessariamente seguire le orme paterne, così come è possibile che un tuo sodale in scena “passi al nemico” (Gennaro Pantalena, interpretato da Gianfelice Imparato, che sarà tra gli interpreti di Assunta Spina, dramma scritto da Salvatore di Giacomo).
Nell’evidenziare la rilevanza, anche psicologica, dei personaggi femminili (la consorte Rosa, Maria Nazionale, forte determinazione e senso pratico, l’amante Luisa, cui Dell’Anna offre uno sguardo dolentemente assertivo, consapevole della situazione “alternativa” in cui versa), credo vada sottolineato il filtro posto alle varie vicende dallo sguardo dei bambini. Ecco allora la visione di Eduardo, il cui ricordo della vita vissuta nel contesto allargato porterà nelle sue commedie indimenticabili ritratti di uomini solitari, pur in un ambito familiare, solidi nei loro principi e il cui senso della vita appare spesso permeato in egual misura da un’ironia tragica ed una certa inquietudine, ma anche di Peppino, “ribelle con un motivo”, la cui libertà, proprio su consiglio del fratello, andrà a conclamarsi sul palcoscenico, luogo deputato ad esprimere, nel paravento del ruolo interpretato, tanto le proprie paure quanto le proprie aspettative esistenziali. Qui rido io, andando a concludere, è un film che emoziona ed intrattiene anche grazie ad una mirabile scorrevolezza narrativa, fino a giungere alla deflagrante sequenza finale, dove Scarpetta, riprendendo quanto già scritto, si prodigherà in una personale arringa in forma di farsa a sostegno delle proprie idee nel corso della quale l’uomo ritroverà l’artista e l’artista ritroverà l’uomo, un rinnovato ensemble volto alla risata conquistatrice e riconciliatrice: come scriveva Josè Saramago, “Dentro di noi c’è qualcosa che non ha nome e quella cosa è ciò che noi siamo”.
3 risposte a "Qui rido io"