Lo chiamavano Trinità… (1970)

Da qualche parte nel West un cavallo avanza lungo il deserto, trascinando un travoy, rudimentale slitta in uso presso i nativi americani, sul quale è mollemente adagiato un uomo (Terence Hill) dagli abiti consunti e lerci, cappello calato sugli occhi per non essere disturbato dal sole incipiente e qualche sbadiglio esternato ogni tanto a dar prova di vita. Il destriero sembra conoscere bene la strada, fermandosi infine ad una squallida posada, dove il nostro ha modo di rifocillarsi con una padellata di fagioli, esternandone rumorosamente il gradimento. La prosecuzione del pranzo vede la seduta al desco di un cacciatore di taglie, il quale insieme al compare intende sincerarsi che l’uomo sia davvero un poveraccio affamato e non un ricercato in fuga. Assoldata la prima ipotesi, la tensione va smorzandosi, almeno fino a quando lo scalcinato individuo nel congedarsi manifesta l’intenzione di portare con sé il peone messicano, ferito, che i due hanno catturato con l’accusa di omicidio, anche se il suo intento era quello di difendere la consorte assalita brutalmente da un gringo. Il tentativo di resistenza da parte dei bounty killer vacilla quando il cencioso vagabondo si presenta con il nome che gli è stato conferito nel corso degli anni, ovvero Trinità, “la mano destra del diavolo”, avendo poi modo di renderli edotti relativamente alla veridicità della fama di tiratore infallibile.

Terence Hill (Tom’s Hardware)

Giunto in un paese, alla ricerca dello sceriffo il nostro scopre che la carica è ricoperta da suo fratello, il corpulento Bambino (Bud Spencer), ladro di cavalli dal pugno micidiale al pari dell’uso della Colt (“la mano sinistra del diavolo”), sostituitosi al vero uomo della legge messosi sulle sue tracce una volta evaso dal carcere di Yuma, ed ora in attesa dei complici Faina (Ezio Marano) e Timido (Luciano Rossi), così da dirigersi verso la California. Nel villaggio spadroneggia però l’infido maggiore Harriman (Farley Granger), che con i suoi scagnozzi tende a fare il bello e il cattivo tempo, in particolare a danno di una comunità di Mormoni guidati dal buon Tobia (Dan Sturkie), interessato ad un loro vasto possedimento di terreno per allevare i propri cavalli. Trinità, autoproclamatosi vice sceriffo, appare propenso ad intervenire in aiuto dei coloni, in particolare una volta conosciute le ragazze mormone Sarah (Gisela Hahn) e Giuditta (Elena Pedemonte), mentre il ricco allevatore, dopo aver assoldato senza successo due pistoleri professionisti, stringe alleanza col messicano Mezcal (Remo Capitani) e la sua banda di tagliagole …

Bud Spencer e Terence Hill (Cineteca di Bologna)

Lo chiamavano Trinità…, in uscita, nelle sale aderenti all’iniziativa, dal prossimo 9 giugno nella versione restaurata nell’ambito del progetto Il cinema ritrovato al cinema avviato con successo negli scorsi anni dalla Cineteca di Bologna, vede Enzo Barboni, che qui si firma come E. B. Clucher (le sue iniziali cui aggiunse il cognome materno) alla sua seconda prova in qualità di regista dopo aver esordito con Ciakmull – L’uomo della vendetta e i validi trascorsi come direttore della fotografia. Nell’ideazione del soggetto e nella stesura della sceneggiatura il cineasta romano partì da una nitida dichiarazione d’intenti, “demistificare il genere”, nell’idea di una messa in scena che accarezzasse tutti gli stilemi propri del western americano classico, questi ultimi riletti in chiave ironica, quando non dissacratoria nel volgere alla farsa, allontanandosi poi dall’iperrealismo violento, attraversato spesso da un brutale cinismo, proprio dei cosiddetti “spaghetti western”, ora giunti ad un momento di stanca dopo aver attraversato la “fase politica”, pregna di simbolismi terzomondisti, in linea con gli agitati anni che vedevano il proliferare di movimenti volti alla rivolta sociale in nome di un riscatto di classe.

Farley Granger (Avelyman)

Già Duccio Tessari con Una pistola per Ringo (1965), sfruttando la “faccia d’angelo” e il sorriso gagliardo di Giuliano Gemma, aveva intuito come si potesse superare il senso del tragico sfruttando la spensieratezza del riso, ma Barboni si distinse per una maggiore concretezza autoriale e un ritrovato spirito fanciullesco e per certi versi giocoso, dove le scazzottate in stile cartone animato, dopo ogni sganassone ci si rialza sempre, dovesse anche cascarti un masso in testa, magari con qualche dente rotto e indolenzimenti vari, prevalgono sulle sparatorie, comunque presenti ma senza insistiti eccessi sanguinolenti, lasciando spazio spesso e volentieri ad un umorismo beffardo e grottesco. Ecco allora nel corso della narrazione la visualizzazione del tipico villaggio sperduto dove un ricco allevatore di bestiame, cui l’interpretazione di Granger offre un raffinato connubio di perfidia e sobria eleganza, esterna la sua “plutocratica sicumera” attraverso la violenta prepotenza nei riguardi di gente pacifica, passando poi per l’ingaggio di pistoleri professionisti e senza dimenticare il vecchietto brontolone (Jonathan Swift, interpretato da Steffen Zacharias), fino all’arrivo salvifico di un eroe suo malgrado, pigro ed indolente, nonché scarsamente incline all’igiene personale, tanto che quando si deciderà ad immergersi nell’acqua saponata Jonathan non potrà fare a meno di esclamare “è dallo straripamento del Pecos che non vedevo tanto sudiciume”.

(Cineteca di Bologna)

Scosso per lo più da fremiti corporali, ma anche dal prurito che gli sovviene alle mani ogni volta che si trova di fronte ad una prepotenza, Trinità è comunque piuttosto scaltro, al contrario del corpulento fratello, che già dal nome, Bambino, evoca una certa ingenuità di fondo, una ruvidezza caratteriale da “gigante buono”, avvezzo a dirimere le controversie con un risolutivo pugno a martello ancora prima del ricorrere alla Colt. Proprio con Lo chiamavano Trinità… la coppia Bud Spencer (Carlo Pedersoli) e Terence Hill (Mario Girotti) trova assestamento definitivo, andando a costituire congruo prodromo per i successivi film che andranno a girare insieme, dopo aver esordito nel 1967 in Dio perdona…io no!, di Giuseppe Colizzi, che li diresse poi in I quattro dell’Ave Maria (1968) e La collina degli stivali (1969), dando così vita ad una felice trilogia. La regia di Clucher, pardon, Barboni, è certo rigorosa, come già credo scritto da molti, ma al contempo fluida, libera da particolari schematismi nel rendere una certa naturale ponderatezza e particolarmente abile nel valorizzare la complementarietà del gioco di spalla che il “mitico duo” riesce a portare in scena, rendendo al meglio la sagace ironia profusa nei dialoghi così come la mimica nei gesti e negli sguardi che tanto richiama, in particolare nelle sequenze delle citate scazzottate, la comicità slapstick propria delle comiche del muto.

Remo Capitani, Dan Sturkie, Hill e Spencer (Cineteca di Bologna)

Da citare poi la presenza di un valente caratterista del nostro cinema come Remo Capitani, qui al suo primo ruolo e non più semplice figurante, nei panni di Mezcal, il bandido messicano: difficile infatti dimenticare la sequenza in cui giunge con i suoi bravi a “far visita” alla comunità mormone guidata da Padre Tobia e, contrariato per non trovare né ricche libagioni né del vino per innaffiarle a dovere, organizza una punizione a suon di ceffoni, imbattendosi (“Questo mi è nuovo non l’ho mai picchiato prima”) in Bambino, che però, insieme al fratello, appartiene ad un’altra confessione, la quale osserva la legge biblica occhio per occhio dente per dente, come ci tiene a precisare il citato Tobia. Il film venne girato soprattutto in esterni, periferia romana, l’altopiano di Camposecco, Vallepietra e il parco della valle del Treja, Lazio, e a Campo Imperatore, Abruzzo; come ha spesso ricordato Hill, furono lui e Bud a proporsi a Barboni per la parte di Trinità e Bambino, in quanto il regista aveva già in mente per i rispettivi ruoli George Eastman (Luigi Montefiori) e Peter Martell (Pietro Martellanza). Memorabile, infine, la colonna sonora opera di un Franco Micalizzi in gran spolvero, con il brano Trinity (testo di Lally Stott) eseguito da Annibale Giannarelli insieme ai Cantautori Moderni di Alessandro Alessandroni, che si prodiga in un caratteristico fischiettio d’accompagnamento (ben lontano nella modulazione da quello più “selvaggio” esternato nei western leoniani) ad accompagnare la sequenza d’apertura e, circolarmente, quella di chiusura; verrà utilizzato da Quentin Tarantino nella conclusione di Django Unchained (2012).

(Cineteca di Bologna)

Forte del successo riscontrato, Barboni appena un anno dopo si prodigò per portare sullo schermo il sequel …continuavano a chiamarlo Trinità, più articolato anche se forse meno “spontaneo” rispetto all’originale, comunque sempre avvincente e fonte di sane risate, espressione di un cinema genuinamente popolare e, riprendendo quanto scritto nel corso dell’articolo, manifestazione di un afflato fanciullesco nel rileggere il genere e conferirgli inedita linfa vitale, epurandolo da una violenza spesso esacerbata nel suo essere fine a se stessa, riconducendolo nell’alveo fiabesco “buoni contro cattivi”, pur nella ridefinizione dei ruoli, con una netta presa di distacco dall’aurea classicità. Un tipo di cinema forse oggi non di facile presa presso il pubblico odierno, giovanile ma non solo, ormai smaliziato da “scintillanti visioni” pregne d’ipnotica effettistica, come testimoniano i flop dei due tentativi volti a recuperare e riproporre l’originaria affabulazione, ovvero lo spurio Botte di Natale, 1994, regia di Hill, anche protagonista con Spencer e lo spin-off a firma nuovamente Barboni, al suo ultimo film, Trinità & Bambino…e adesso tocca a noi, con i semisconosciuti Heath Kizzier e Keith Neubert ad interpretare rispettivamente i figli di Trinità e Bambino. In chiusura, un doveroso plauso al doppiaggio di Lo chiamavano Trinità…: Pino Locchi dà la voce a Terence, Glauco Onorato a Bud, Sergio Graziani a Granger, Vinicio Sofia a Capitani, Ferruccio Amendola a Zacharias e Arturo Dominici a Tobia.

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Fondamentale per la stesura dell’articolo si è rivelata la lettura del volume Dizionario del western all’italiana di Marco Giusti (Oscar Mondadori, 2007)


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