Presentato, in anteprima mondiale, al 63mo Festival dei Popoli (Firenze, 5-13 novembre), dove ha conseguito una Menzione Speciale al Miglior Documentario Italiano e il Premio del Pubblico MyMovies (ex aequo con Adria, di Alessandro Garbuio), Stonebreakers, scritto e diretto da Valerio Ciriaci, è un documentario volto a visualizzare, con rigore e lucidità, le problematiche proprie di una grande nazione, gli Stati Uniti d’America. In particolare si pone l’accento sulle sempre più evidenti difficoltà a fare definitivamente i conti con il proprio passato, per cui si è condannati a a riviverlo (Primo Levi), nonostante le esibizioni muscolari intese a celebrare un roboante nazionalismo, con il classico american dream a rendersi ormai portatore dell’illusorietà di un generalizzato benessere la cui idea è opportunamente calata dall’alto, in nome di una evoluzione incline a materializzarsi del tutto esteriormente, all’interno di un sistema che garantisce l’attuazione pratica di quel “diritto alla felicità” proprio, fra l’altro, della Dichiarazione d’Indipendenza, purché si rispettino determinati parametri ritenuti idonei ad un idealizzato inserimento sociale. Sulla base della constatazione di come “il passato sia un prologo”, la narrazione, sostenuta visivamente da una nitida fotografia (Isaak J. Liptzin) e punteggiata da un valido e funzionale montaggio (Andrea Fumagalli), è costruita efficacemente sulla percorrenza di significative tappe, ognuna a farsi simbolo delle proteste e delle lotte portate avanti da quanti, afroamericani e nativi precipuamente, hanno visto nel corso degli anni non solo calpestati violentemente i propri diritti, ma anche la nube di un calcolato oblio avvolgere mattanze e privazioni coercitive di quella libertà connaturata ad ogni essere umano, in nome di un egemone ed assolutistico “diritto di conquista”.
Ecco allora che i monumenti elevati a memoria di determinati personaggi, a loro volta rappresentativi di peculiari accadimenti storici, o le lapidi, le targhe commemorative poste in vari luoghi del vasto territorio statunitense, vanno ad assumere una rilevanza ben precisa, ovvero far rivivere la Storia al di là dei vacui trionfalismi, ponendo in essere tutta una serie d’interrogativi su cosa possano realmente raffigurare, attualizzandone il contesto fino a giungere ad una riflessione critica: il movimento Black Lives Matter, fondato nel 2013 e la cui attività si è intensificata dopo la morte dell’afroamericano George Floyd in seguito ad un brutale intervento della polizia, con le sue azioni di protesta mira, tra l’altro, ad abbattere le statue di Cristoforo Colombo, considerato colonizzatore e schiavista, mentre per la comunità italo americana il navigatore ed esploratore genovese va a rappresentare il simbolo dei sacrifici portati avanti dai propri avi per affermarsi in terra straniera, dimenticando però, ad esempio, quei rappresentanti della classe operaia che si batterono fino allo stremo per l’affermazione dell’equità dei diritti e del trattamento economico degli immigrati provenienti dal “bel paese”. Nel territorio del Dakota del Sud il Monte Rushmore, massiccio montuoso delle Black Hills, sul quale sono scolpite le effigie di quattro presidenti (George Washington, Thomas Jefferson, Theodore Roosevelt ed Abramo Lincoln, in rappresentanza dei primi 150 anni di storia americana, considerandone la reciproca rilevanza nella crescita della nazione), per Trump costituisce “il simbolo eterno della libertà”, ma per i nativi simboleggia soprattutto l’espropriazione delle loro terre e il perseverare nel mancato rispetto dei trattati, confinati nelle riserve dove si vive ai limiti dell’indigenza, tra disoccupazione e basse aspettative di vita.
Difficile dimenticare come nella poco distante valle del torrente Wounded Knee, il 29 dicembre 1890, l’esercito degli Stati Uniti si rese responsabile dell’eccidio di un gruppo di Sioux Lakota, i Miniconjou, circa trecento, guidati da Piede Grosso, che, alla notizia dell’uccisione di Toro Seduto, intendeva recarsi a Pine Ridge, per invocare la protezione di Nuvola Rossa. Ecco poi le baracche degli schiavi in Virginia, località dove nel 1619 il White Lion fece sbarcare i primi africani, destinati ad essere venduti come servi a contratto, dando inizio alla schiavitù, con le ingiustizie e le sopraffazioni destinate a continuare anche dopo l’emancipazione, ritrovandosi senza un lavoro o una terra da coltivare, mentre in quel di Philadelphia Arielle Julia Brown, operatrice culturale multidisciplinare, si adopera per dare vita ad uno spazio pubblico in cui inserire tutta una serie di installazioni artistiche rappresentative di coloro che sono oppressi, emarginati anche nella possibilità di esprimere dissenso, da contrapporre a quei monumenti spesso richiamanti la supremazia bianca quale dichiarazione di potere. Spazio anche alla contrapposizione riguardo la celebrazione del Giorno del Ringraziamento, con l’arrivo dei Padri Pellegrini nel Massachusetts a bordo del Mayflower nel 1620 a costituire per i nativi il simbolo del colonialismo e dell’imperialismo perpetrati nei confronti degli indigeni di tutto il mondo.
Al confine col Messico il “monumento” eretto per volontà del Presidente Trump, il famigerato muro, diviene simbolo portante della negazione di qualsivoglia compartecipazione umana alle vicende di un prossimo che dovrebbe essere il nostro riflesso, mentre lungo il deserto si ergono in contrapposizione le tante croci a memoria di quanti hanno pagato con la vita il tentativo di varcare la frontiera, spesso spinti dalla miseria e dalla speranza di una vita quantomeno diversa, se non migliore. Lo stile registico di Ciriaci tende ad assecondare felicemente un andamento narrativo volto al cronachistico, senza esternare alcuna presa di posizione, rimarcando in definitiva quella forza interpretativa che è sempre stata inerente al genere del “cinema del reale” rispetto al “cinema di finzione” nei riguardi di quanto si andrà a visualizzare nel corso della narrazione, offrendo in concreto diversi spunti di riflessione sul ruolo attivo della memoria relativamente a ben precisi eventi storici, proponendone il loro rinnovamento critico attraverso il confronto, la discussione ed una auspicabile condivisione a far da traino per un futuro auspicabilmente inedito. Portati appresso il passato solo se hai l’intenzione di costruire (Domenico Cieri Estrada, scrittore messicano).
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