Phoenix, Arizona, venerdì 11 dicembre 1959, ore 2:43 p.m. Marion Crane (Janet Leigh), segretaria in una società immobiliare, approfitta della pausa pranzo per incontrare il suo amante, Sam Loomis (John Gavin), in una stanza d’albergo. Dopo aver fatto l’amore la coppia discute sull’eventualità di un futuro insieme, ma i problemi sono tanti, soprattutto, economici: lei vive con la sorella Lila (Vera Miles), lui gestisce il negozio di ferramenta paterno a Fairvale, California, ed è in arretrato col pagamento degli alimenti all’ex moglie. Tornata in ufficio, Marion riceve dal principale l’incarico di depositare in banca ben quarantamila dollari, versati da un facoltoso cliente per l’acquisto di una casa da donare alla figlia, così da poterli prelevare il lunedì, alla riapertura. E’ questione di un attimo: Marion, fingendo un’emicrania per ottenere il pomeriggio libero una volta adempiuto l’incarico, si appropria del denaro e, preparata frettolosamente una valigia, fugge via, con l’intenzione di raggiungere Sam. La tensione accumulata farà sì che la stanchezza prenda il sopravvento, quindi la donna si fermerà sul ciglio della strada per riposare. Verrà destata dall’intervento di un poliziotto della Stradale, che, dopo averle chiesto i documenti, nutrirà qualche sospetto nei suoi riguardi, seguendola fino al concessionario di auto usate dove Marion, credendo di poter cancellare le tracce, permuterà il proprio veicolo in tutta fretta. Di nuovo in viaggio, resasi conto di aver sbagliato strada, causa un improvviso fortunale deciderà di passare la notte in un motel di cui ha notato l’insegna. Il proprietario, Norman Bates (Anthony Perkins), ragazzo timido, molto gentile e premuroso, con lo strano hobby della tassidermia, l’invita a cena nel suo ufficio, visto che l’anziana madre con cui convive ha rifiutato di riceverla in casa, edificio che si erge sulla vicina collina. Poco dopo, mentre la ragazza è sotto la doccia, una donna infierisce su di lei con un coltello, uccidendola.
Norman inveisce contro la madre (“Mamma che hai fatto? Cos’è tutto questo sangue?”) e intuendo l’accaduto si precipita nella stanza di Marion, impegnandosi a pulire accuratamente e a trasportare il cadavere ed ogni effetto personale nel baule della sua auto, facendo sprofondare il veicolo in una palude nelle vicinanze. Dopo una settimana Lila, non avendo avuto più notizie della sorella, si reca da Sam per comprendere cosa possa essere accaduto, ma sulle tracce di Marion vi è anche il detective privato Milton Arbogast (Martin Balsam), incaricato dal titolare dell’agenzia immobiliare di recuperare i quarantamila dollari…“Non è un messaggio che ha incuriosito il pubblico. Non è un grande interpretazione che l’ha sconvolto. Non è un romanzo molto apprezzato che l’ha avvinto. Quello che ha commosso il pubblico è stato il film puro”. Così il regista Alfred Hitchcock spiegava a François Truffaut nel famoso libro-intervista (Le cinéma selon Hitchcock, Éditions Robert Laffont, 1967) l’essenza di Psycho e il suo grande successo al botteghino, evidenziando come, più che lo spessore della tematica, divenissero ora rilevanti la costruzione narrativa e l’orchestrazione relativa ad una concreta fascinazione visiva. Girato, stando ad alcuni fonti, utilizzando la stessa troupe utilizzata per la serie televisiva Alfred Hitchcock Presents, con un budget di ottocentomila dollari, fotografato volutamente in un “neutro” bianco e nero da John L. Russell, a quanto risulta sia per evitare il facile raccapriccio garantito dall’ “effetto sangue”, sia per richiamare un’atmosfera realisticamente gotica nell’alternanza di luce ed ombra, Psycho fa affidamento su una costruzione in crescendo, incasellando una serie di sequenze che vanno a rappresentare quanto sia relativamente facile varcare quel confine che conduce alla devianza umana, al compimento di azioni moralmente riprovevoli, assecondando la potenziale doppiezza del proprio animo.
Quest’ultima appare visualizzata nel corso della narrazione non solo dalla presenza costante degli specchi, ma anche dal contrasto per certi versi schizofrenico tra verticale ed orizzontale, già risultante dai titoli di testa (Saul Bass) e poi sviluppato nel corso della narrazione (Truffaut, nel citato libro intervista, fa notare a Sir Alfred le immagini contrapposte della dimora di Norman e del motel), mentre l’afflato visivo appare teso, come già notato da molti, a rendere una frammentazione dell’immagine, in un continuo intersecarsi di primi piani (variando dal medio al ravvicinato), riprese in soggettiva o dal basso verso l’alto (come quella che vede Norman condurre la madre in cantina, ad esempio). Ancora prima che la resa della suspense, sempre e comunque avvertibile, ciò che in Psycho apparequale interesse precipuo di Hitchcock è il ricercare la complicità degli spettatori, renderli partecipi del conflitto interiore proprio dei protagonisti e “intrappolarli” in un vortice voyeuristico già dalla sequenza iniziale, quando l’obiettivo della macchina da presa, partendo dall’universale della panoramica cittadina, ripresa nella sua anodina quotidianità, entra nel particolare della finestra dell’hotel, potendo anche al riguardo ravvisarsi, a mio avviso, un ideale collegamento con lo sguardo di Norman attraverso il buco nel muro, ad osservare Marion spogliarsi nella stanza del motel. L’abile lavoro di scrittura reso da Joseph Stefano nell’adattare il romanzo omonimo di Robert Bloch appare volto a depistare ed incuriosire, sovvertendo i consueti canoni narrativi: quella che potremmo definire la prima parte del film, la subitanea fuga di Marion fino alla sua imprevista sosta al Bates Motel, appare descrittiva ed esplicativa di ogni particolare, esternando i dubbi della donna mano a mano che procede nella fuga andando incontro a più di un contrattempo (l’incontro fortuito con il principale, le domande del poliziotto, la permuta dell’automobile), fra vari ripensamenti (il dialogo con Norman, cui esterna la decisione di tornare indietro, poco prima di essere uccisa), rendendo la scena del brutale omicidio sotto la doccia, entrata di diritto nella storia del cinema (45 secondi di durata, una settimana di riprese e 70 posizioni di macchina), qualcosa d’inaspettato e terrificante, nonostante non si veda mai il coltello infierire sulla vittima, se ne avvertono solo i fendenti, in totale sincronicità con il sinistro motivo della colonna sonora (Bernard Herrmann).
Il susseguirsi delle inquadrature studiato da Hitchcock rende bastevole a suscitare orrore e raccapriccio il primo piano della vittima urlante, cui segue, dopo il rapido e frenetico succedersi delle coltellate, il particolare del rivolo di sangue confluente verso lo scarico e il soffermarsi, senza comunque indugiarvi, sul suo occhio spento, mentre i brividi proseguiranno quando vedremo Norman adoperarsi nel pulire il luogo del delitto, sbarazzarsi del cadavere e far sprofondare il veicolo di Marion nella palude. Altrettanto agghiacciante, nonché disturbante, il finale, quando la verità verrà fuori ed una leggera sovrapposizione su un volto sarà esaustiva e foriera di umano terrore, in luogo di qualsivoglia spiegazione psicoanalitica, nel fare comprendere la fragilità dell’essere umano una volta che si sia trovato in difficoltoso equilibrio su quella sottile linea dell’inconscio debitamente sospesa tra paura e libertà. Tre seguiti, fondamentalmente inutili (Psycho II, Richard Franklin 1983; Psycho III, Anthony Perkins, 1986; Psycho IV: The Beginning, Mike Garris, 1990, film destinato alla televisione), cui seguirono uno spin off televisivo (Bates Motel, Richard Rothstein, 1987), il remake-fotocopia, 1998, ad opera di Gus Van Sant, la serie tv Bates Motel (2013-2017) ed altre opere che possono comunque suscitare qualche interesse, quali i documentari A Conversation With Norman (Jonathan M. Parisen, 2005), The Psycho Legacy (Robert Galluzzo, 2010) e 78/52 (Alexandre O. Philippe, 2017).
Pubblicato su Diari di Cineclub N. 111- Dicembre 2022
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