Sulla riva nord di Long Island, a 50 km da New York, una fanciulla di nome Sabrina (Audrey Hepburn), graziosa e dotata di un naturale fascino, vive in un appartamento sul garage dell’enorme tenuta di proprietà della ricca e potente famiglia Larrabee. E’ figlia di Thomas Fairchild (John Williams), un ottimo autista dai modi raffinati, importato anni addietro dall’Inghilterra insieme all’ultimo modello di Rolls-Royce. Il genitore la invita a dimenticare l’infatuazione, a quanto pare unilaterale, per il secondogenito di casa Larrabee, David (William Holden), dandy gaudente, ottimo giocatore di polo ed incline al facile innamoramento, lo testimoniano i tre matrimoni alle spalle, nonché rappresentante di una detrazione di seicento dollari sul reddito familiare, considerando come non abbia quasi mai messo piede nella sede delle imprese di famiglia, un immenso grattacielo nel centro della Grande Mela. Il consistente patrimonio, rivolto ad investimenti in qualsiasi attività idonea a produrre reddito, può fare affidamento sulle felici intuizioni speculative del primogenito Linus (Humphrey Bogart), uomo tutto d’un pezzo, dedito esclusivamente agli affari. Sarà proprio lui a salvare Sabrina da un un goffo tentativo di suicidio, poco prima che la ragazza si decida ad assecondare la decisione paterna di partire per Parigi, così da frequentare una scuola di cucina. Qui la vita scorre tra uova rotte malamente, inutili gli insegnamenti del cuoco sul “polso-ghigliottina” (“Uno, due, tre…crac!”), per non parlare del soufflé crudo, ma l’aiuto di un anziano barone (Marcel Dalio), che ne comprenderà le sue tristezze sentimentali (“una donna felicemente innamorata lo brucia il soufflé…Una donna che ha un amore infelice si dimentica di accendere il forno...”), si rivelerà fondamentale perché Sabrina abbia modo di affinare l’innata grazia, apprendendo “come stare al mondo”.
E così, rientrata in patria dopo due anni David stenterà a riconoscerla, per poi innamorarsi perdutamente di lei, trascurando la ricca ereditiera, Elizabeth Tyson (Martha Hyer), che il fratello vorrebbe fargli sposare, a suggello di una importante operazione industriale. Le imprese Larrabee, infatti, stanno per entrare nel promettente settore della plastica, con una inedita materia prima derivata dalla canna da zucchero, di cui i Tyson sono i secondi produttori (i primi non sono considerati da Linus, essendo privi di figlie…) . Occorre quindi portare lo scavezzacollo sulla retta via, come intimato anche dal capofamiglia, e qui entra in gioco l’irreprensibile Linus, pronto a far la corte a Sabrina, Parigi val bene una messa, ordendo un piano cinico e scaltro, appena addolcito da qualche buona intenzione. Cupido, però, pare abbia altri progetti… Probabilmente solo una personalità geniale e poliedrica quale quella di Billy Wilder, regista di Sabrina, nonché collaboratore alla sceneggiatura insieme a Ernest Lehman e a Samuel A. Taylor, quest’ultimo autore della commedia teatrale d’origine (Sabrina Fair, 1953), avrebbe potuto contornare di una certa amarezza e di un beffardo, pungente, sarcasmo quella che a raccontarla sembrerebbe nient’altro che una favola frivola ed amena. Eccolo allora allestire, non trascurando di soppesare il consueto sguardo sospeso fra disincanto e dolente pessimismo, una sophisticated comedy che, per quanto ricercata nell’allestimento complessivo della messa in scena (mirabili le scenografie e la fotografia in bianco e nero), non dimentica stilemi a lui cari quali l’essenzialità congiunta ad una pressoché perfetta struttura narrativa.
Il tutto incline ad offrire risalto tanto ad ogni inquadratura quanto alle singole interpretazioni attoriali, con dialoghi pregni di un persistente umorismo, senza dimenticare magnifiche gag (vedi la seduta di David sulle coppe da champagne, dietro invito del perfido fratellone…), così da passare in rassegna vari aspetti della natura umana, a partire dalle sue più evidenti dicotomie, fra mutevolezza repentina nell’assecondare le varie circostanze che vi si parano durante il cammino e l’adeguarsi ad esse, mutando identità per opportunità o necessità, sia da un punto di vista psicologico che fisico. Una mutazione che può poi rivestire i parametri propri dell’identificazione più totale o essere semplicemente un passaggio per la conquista definitiva del proprio io, mentre sullo sfondo si stagliano quali note ricorrenti l’opportunismo, l’ossessione per il profitto, ma anche pulsioni sessuali spesso malcelate o trattenute. Ecco allora la ragazza ingenua e un po’ goffa trasformarsi in una donna dal portamento elegante ed offrirsi alla vita, nella speranza, in forma d’illusione onirica, che amore e riscatto sociale possano andare di pari passo, la resa all’amore dell’attempato uomo d’affari dichiaratamente restio ai coinvolgimenti sentimentali ed orditore di sottili trame a salvaguardia della famigliare “plutocratica sicumera”, il perdigiorno matricolato che assume consapevolezza, forse definitiva, della necessità di assumere determinate responsabilità. Rispettivamente la bellissima Audrey Hepburn, felicemente in parte tra dolcezza, naturale eleganza e determinazione, Bogie duttile e propenso all’ironia nel tratteggiare le ritrosie sentimentali di maturo innamorato (memorabile il “resta tutto in famiglia” esternato poco prima di baciare Sabrina), anche autoironico nel riprendere determinati atteggiamenti permeati di disillusione rimembrando dolenti trascorsi amorosi, qui del tutto inventati alla bisogna, ed infine Holden, a rendere nel nome di una perpetrata immaturità la strafottenza nei confronti delle convenzioni sociali.
Merito della malia propria del cinema, non emerge alcuno dei malumori ravvisabili sul set, almeno stando ai “si dice” del tempo, esternati da un Bogart non particolarmente entusiasta sia di essere stato una seconda scelta (per la parte di Linus, Larry nella versione italiana, si era pensato a Cary Grant, che però era già impegnato), sia di lavorare con la Hepburn e con Holden. Esemplare anche la caratterizzazione dei personaggi secondari, il cuoco francese, il nobile pigmalione, papà Larrabee (Walter Hampden) e la sua passione, malvista dalla consorte, per i sigari e i Martini (con qualche difficoltà nell’aggiunta dell’oliva…), ma soprattutto l’ineffabile autista Thomas Fairchild, perfetto contrappunto all’interno dell’ottica rovesciata servitù/padroni. E’ lui infatti a rimarcare con il suo fare arguto, in più di un’occasione, il sottofondo amaro della narrazione, stemperando l’impietoso ritratto che ne vien fuori di certi ambienti sociali: convenzioni, sdegno e disprezzo, astuzie e macchinazioni pur di raggiungere lo scopo finale, ovvero continuare a mantenere un immacolato prestigio, con l’esteriorità a farsi garante. Lampanti al riguardo due sue esternazioni: “la vita è come una limousine, viaggiamo tutti insieme, ma ci sono un sedile davanti ed uno dietro, con una finestra in mezzo”; “nessun povero è stato mai chiamato democratico per aver sposato un ricco”. Sabrina conseguì sei candidature ai Premi Oscar: Miglior Regia, Miglior Attrice Protagonista, Miglior Sceneggiatura non Originale, Miglior Fotografia in bianco e nero (Charles Lang), Miglior Scenografia in bianco e nero (Walter H. Tyler, Hal Pereira), Migliori Costumi (Edith Head, che modificò quelli del guardaroba personale della Hepburn, firmati da un ancora sconosciuto Hubert de Givenchy, che infatti non venne accreditato), ottenendo la statuetta per quest’ultima categoria.
Nel 1995 venne girato un remake con Julia Ormond (Sabrina), Harrison Ford (Linus), Greg Kinnear (David), per la regia di Sydney Pollack: forse vi è più sostanza, in particolare riguardo certi approfondimenti psicologici sulla figura di Linus, ma, almeno a mio parere, si palesa come un tentativo non del tutto riuscito di replicare quel suggestivo melange fra fragrante leggerezza e sapida consistenza proprio dell’originale. Probabilmente un buon remake di Sabrina potrebbe invece considerarsi Pretty Woman (Garry Marshall, 1990), soprattutto considerando la figura del tycoon Edward Lewis, interpretato da un Richard Gere in gran spolvero.
I love this website
"Mi piace"Piace a 1 persona
Thank you very much, greetings.
"Mi piace""Mi piace"