Come riportato nelle Scritture, in loro adempimento, apriti cielo, spalancati terra, verrà il giorno in cui del Tempio Ariston di Sanremo non resterà pietra su pietra… Lingue di fuoco si abbatteranno sul palco, Morandi non avrà neanche il tempo di mormorare “stiamo uniti” e Papaleo di assecondarlo sempre più (inutilmente) stralunato, la forza aerea (probabilmente celeste, anche l’ira divina si aggiorna) lancerà le sue bombe su quei pochi cantanti che in qualche modo siano riusciti nel frattempo ad esibirsi cercando di dare un senso al consueto luccicante baraccone nazional-popolare dell’assurdo, sempre più statico, farraginoso e auto celebrativo.
Ma ecco, sta scritto che una figura si ergerà dalle macerie, colui che porterà pace e serenità ai nostri poveri cuori afflitti e oppressi, ricordandoci la bellezza del Regno dei Cieli della quale anche preti, frati, testate cattoliche si sono ormai dimenticati. Lui (Joan) scenderà dal suo dorato ritiro in quel di Galbiate per adempiere la sua missione, da bravo e disincantato moralizzatore, comunicare al mondo le ovvietà più disarmanti, non limitandosi ad esporre il proprio pensiero, com’è giusto che sia per ognuno di noi, ma preoccupandosi d’ imporlo come verità rivelata e calata dall’alto con modalità messianiche in odor d’ Apocalisse.
Il tutto inframmezzato, e appena ammorbidito, da qualche canzone o gag vagamente statica, cercando d’avviare un inedito trio con gli improvvisati discepoli Morandi e Pupo o di duettare con Papaleo, tra gli eletti che lo riconoscono come “ sua immensità”.
E come dimenticare i cassa integrati, l’Italia che ha perso la bellezza, la politica? Il nostro riserva al riguardo, nella sua magnificente e sgangherata misericordia, pillole di confortante saggezza, non dimenticandosi, ovvio, di salvare anche se stesso, lanciando invettive ed insulti a quanti hanno semplicemente messo in atto il loro diritto di critica, certo non capendo, la storia si ripete, la bontà del verbo, preferendo le tenebre alla luce.
Se non fosse che Celentano propone ormai da anni lo stesso copione (tutto ebbe inizio con il film Joan Lui, ‘85), avrebbe avuto probabilmente più senso uno spettacolo a sé stante, considerando lunghezza e lentezza dell’esibizione (un’ora e più), alla fine apparsa come un’appropriazione indebita e impudica, facendo risaltare ancora di più, merito o demerito, ai posteri l’ardua sentenza, la solita teatralizzazione surreale di un mondo a parte, tra amenità e finta umanità.





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