
Londra, Covent Garden.
Si aprono le porte del teatro, una folla di studenti dell’accademia musicale si precipita di gran carriera lungo le scale che conducono al loggione, così da assicurarsi un posto dalla buona visuale.
E’ in programma la prima di un nuovo balletto, Heart of Fire, che vedrà impegnata la compagnia di Boris Lermontov (Anton Walbrook) su musiche del professor Palmer (Austin Trevor).
Il giovane compositore Julian Craster (Marius Goring) non può fare a meno di notare, con grande sgomento, come le note di alcune delle composizioni eseguite richiamino fin troppo i suoi lavori; decide di scrivere una lettera a Lermontov, il quale lo riceverà la mattina seguente, invitandolo a desistere da ulteriori rimostranze (“è più avvilente essere costretti a derubare che essere derubati”) ed offrendogli infine il posto di aiuto direttore d’orchestra, intuendone l’indubbio talento. Non sarà comunque l’unica novità nella rappresentazione di Heart of Fire, visto che il vulcanico impresario ha inserito nel corpo di ballo la giovane Victoria, Vicky, Page (Moira Shearer), conosciuta la sera della prima nel corso di un ricevimento organizzato dalla zia della ragazza, la facoltosa Lady Neston (Irene Browne), e di cui ha potuto saggiare le doti assistendo alla sua prova ne Il lago dei cigni, in un teatro di periferia.

Una volta che la prima ballerina Irina Boronskaja (Ludmilla Tchérina) annuncerà raggiante il proprio fidanzamento, e l’imminente matrimonio, suscitando l’ira di Lermontov, il quale ritiene che la dedizione all’arte debba essere totale, al di là dei richiami della quotidiana esistenza (“la natura umana non deve essere tenuta in considerazione”), Vicky ne prenderà il posto, divenendo protagonista assoluta di un inedito balletto, The Red Shoes, ispirato ad una fiaba di Hans Christian Andersen e musicato da Julian. Lo spettacolo riscontrerà un enorme successo, la ballerina e il compositore troveranno la loro affermazione, ma la vita busserà presto alla porta di ambedue… Scritto e diretto da Michael Powell ed Emeric Pressburger ispirandosi all’omonima fiaba di H.C. Andersen, The Red Shoes è un film la cui godibilità aumenta in proporzione alla considerazione del periodo di realizzazione, percependone quindi l’indubbio scossone “rivoluzionario” che diede al cinema dell’epoca, inglese ma non solo, con un felice impatto tanto sul pubblico quanto sulla critica.

Vengono coniugati i toni narrativi propri del melodramma, soffuso di un denso e sofferto romanticismo, con virtuosismi registici intesi a rappresentare una concreta visionarietà: fantasia e realtà, arte e vita, tendono a fondersi in un poderoso ensemble, concedendo spazio tanto allo sguardo dello spettatore che a quello dell’attore in scena, volto quest’ultimo, mediato dall’obiettivo della macchina da presa, a restituirci la visione di una totale immedesimazione e dedizione recitativa, tale da condurre alla trasfigurazione di sé e di quanto lo circonda. Sorprendono i rapidi movimenti di macchina, inclusivi di ogni particolare proprio della messa in scena (splendida la sequenza del dietro le quinte, in attesa della prima di Scarpette rosse) l’uso sfrontato ed irruento di un technicolor dalle tonalità particolarmente accese e stilizzate (la fotografia è di Jack Cardiff), tale da creare l’effetto di una sospensione spaziale e temporale degli eventi narrati, quando non una fantasmagorica astrazione che rincorre stilemi pittorici (Rembrandt, per esempio nella fulgida sequenza notturna del compleanno o in quella che vede l’impresario roso dalla rabbia all’interno della sua dimora) ed onirici, cui non sono estranei espressionistici richiami orrorifici, come può notarsi, fra l’altro, nella celeberrima sequenza del balletto che dà il titolo al film.

Un numero musicale di quasi 20 minuti la cui esecuzione, protagonista una vivida e sanguigna Moira Shearer, infrange qualsivoglia parete teatrale o cinematografica, per un’orgia visiva sapientemente orchestrata, la cui consistenza lisergica trova la sua sublimazione nella trasmutazione allegorica del pubblico nelle onde di un mare in tempesta, che vanno ad infrangersi sul palcoscenico. All’interno di un cast praticamente perfetto ed ottimamente diretto, con i personaggi circoscritti all’interno di una scenografia sfavillante ma anche esprimente una certa corporeità, in contrasto con l’eleganza voluttuosa ed eterea propria del mondo della danza, risalta l’intensa interpretazione offerta da Anton Walbrook nel rendere Lermontov un sinistro e tormentato Pigmalione dall’aura mefistofelica, che intende appropriarsi dell’anima di ogni artista del quale abbia scoperto e coltivato il talento, in quanto solo così, per il tramite della loro vitalità artistica, può elevare, simbioticamente, una semplice esistenza in odore di necessità ad una dimensione “altra”; la vita gioca a rimpiattino con l’arte, nell’eterno conflitto tra ciò che siamo, ciò che vorremmo essere e quanto esitiamo a divenire.

Suo contraltare è Julian, la cui ambizione sottesa è ben resa da Marius Goring: il sacrificio richiesto alla donna amata mutua dalla manifestazione, in certo qual senso altruistica, della consacrazione totale all’arte, in una totale dedizione alla propria persona, nell’annullamento di qualsiasi anelito creativo; si viene così a creare un ulteriore contrasto, quello fra fisicità e spiritualità, lambendo le sponde del proprio lato oscuro, accettandolo come parte della propria personalità e giungendo all’acquisizione di una sofferta identità.
Puro cinema ed espressione della sua originaria magia, nella ricerca di inedite modalità rappresentative, alternando creatività ed intuitiva artigianalità, The Red Shoes ammalia e stupisce ancora oggi, evidenziando le influenze su autori successivi e le loro opere (Scorsese e De Palma, in primo luogo).
Presentato alla 13ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, il film conseguì due Oscar: scenografia e costumi (Arthur Lawson e Hein Heckroth), miglior colonna sonora musicale (Brian Easdale).
Già pubblicato su Diari di Cineclub N° 66- Novembre 2018
2 risposte a "Scarpette rosse (The Red Shoes, 1948)"