
Parigi, anni’80. La piccola Alma (Oro De Commarque) è in chiesa insieme ai suoi fratelli, Jean (Ettore Giustiniani) e Sebastiano (Milo Roussel), il primogenito. La funzione in corso segue il rito russo ortodosso, religione abbracciata dalla madre Charlotte (Céline Sallette) una volta conosciuto Pavel (Benjamin Baroche), il suo nuovo compagno, a cinque anni dalla separazione dal marito Carlo (Riccardo Scamarcio), sceneggiatore dalle alterne fortune, trasferendosi dunque da Roma nella capitale francese.
D’altronde la donna “è sempre innamorata di qualcosa o di qualcuno”, come manifestato da un laconico pensiero della bambina, fra i tanti che le attraversano la mente, in questo momento precipuamente alimentari visto che la religione ora seguita impone il digiuno prima della comunione, ma solitamente propensi ad immaginare una situazione esistenziale ideale, distante da sballottamenti emotivi, come potrebbe essere la paventata partenza per il Canada. Charlotte, incinta, ha un lieve malore e necessita di un adeguato riposo per poter portare a termine la gravidanza senza problemi: decide quindi di affidare la prole all’ex consorte, due settimane da trascorrere in montagna a sciare, festeggiando insieme il Capodanno.
Se i tre appaiono poco entusiasti all’idea, Sebastiano in particolare, Carlo non propende certo ai salti di gioia, concentrato com’ è sugli interventi correttivi da apportare alla sceneggiatura di un film cui sta lavorando da tempo, oltre ad essere a lui estranea l’idea di un concreto rapporto genitoriale coi propri figli, tanto da affidarli in un primo momento ai nonni, per poi riprenderli con sé e condurli, insieme alla sua collaboratrice e compagna Benedetta (Alba Rohrwacher), nella casa al mare, a Sabaudia.

Sarà l’inizio di una convivenza difficoltosa, all’insegna di incomprensioni, reciproche, pressoché giornaliere e conseguenti litigi, ma anche di nuove conoscenze per Alma, Jean e Sebastiano, finché, in seguito a circostanze fortuite, la famiglia originaria si troverà nuovamente riunita. Per sempre? Magari…Esordio alla regia di Ginevra Elkann, finora nota per la sua attività di produttrice, Magari ha aperto lo scorso anno la 72ma edizione del Locarno Film Festival; come altri film italiani ha ovviato alla mancata uscita in sala causa emergenza sanitaria con la disponibilità gratuita sulla piattaforma web RaiPlay.
La sceneggiatura, scritta dalla regista insieme a Chiara Barzini, delinea l’idea di “famiglia ideale” a misura di bambino, ovvero conformandosi ai pensieri e alle “visioni” della sensibile Alma, interpretata con naturalezza dalla brava Oro De Commarque, che attraversano la narrazione animandola di volta in volta con le immaginifiche soluzioni visualizzate dalla bambina quale alternativa risolutiva a determinate problematiche scaturenti da vari accadimenti non sempre forieri di spensieratezza e felicità, ma anche quale idealizzazione del suo personale vissuto, per esempio la prima cotta, rivolta ad un ragazzo del luogo con cui stringerà amicizia insieme ai suoi fratelli. E’ un del tutto personale modo d’adattarsi, ricorrendo alla fantasia quale opportuna ancora di salvezza, alle conseguenze dei tanti, troppi, mutamenti esistenziali che le vengono imposti dall’esterno, così da mantenere comunque una propria visione del mondo, confortata anche dal poter fare fronte comune con gli altri due fratelli, sempre considerando la naturale esternazione delle differenti personalità nel fronteggiare novità e vicissitudini.

Ecco allora Jean immedesimarsi nelle gesta del protagonista della serie televisiva L’uomo da sei milioni di dollari*, mentre il più grande Sebastiano esibisce nella sua manifesta introversione un “solo contro tutto e contro tutti”, gestendo così i turbinii emozionali propri dell’età puberale, trovandosi inoltre investito in virtù della sua età di responsabilità che non avverte ancora del tutto proprie, anche perché consapevole di come queste debbano necessariamente gravitare sui “veri adulti” e che quasi mai, pur considerando l’umana imperfezione, si comportano in quanto tali. Carlo, interpretato da uno Scamarcio non sempre del tutto empatico, nasconde dietro l’atteggiamento strafottente le frustrazioni derivanti dall’essere un genitore essenzialmente nominale, appena funzionale alla bisogna, così come l’essere uno scrittore mediocre trova paravento nell’essere incompreso e non apprezzato per quello che veramente vale; Benedetta, una Rohrwacher a tratti un po’ spaesata, nella sua svagata libertà sembra anch’essa una bambina orfana di un solido punto di riferimento, mentre Charlotte appare per lo più intenta a perseguire il proprio modus vivendi, agendo in modo che gli altri vi si adeguino senza colpo ferire.
La regia è incline a prediligere, soprattutto nella prima parte, una certa ponderatezza, trovando comunque un proprio ritmo una volta che la narrazione volge a visualizzare l’assestamento del nucleo familiare in quel di Sabaudia, in quanto alle riprese della spiaggia in inverno, ambiente inizialmente non gradito ai bambini e visivamente reso come tale anche dalla fotografia di Vladan Radovic, si alternano quelle più movimentate in interno, dove la macchina a mano si accosta freneticamente ai volti dei ragazzini e ne segue le vicende passo dopo passo, trasferendo poi tale modalità nel pedinarli lungo le loro esplorazioni, la presa di confidenza con una località a loro estranea.

Ciò che rende Magari un’opera particolarmente vivida e pregnante è certamente, riprendendo e sviluppando quanto su scritto, la coincidenza fra l’obiettivo della macchina da presa e lo sguardo di Alma: le sue riflessioni, i suoi sogni ad occhi aperti (come scriveva Edgar Allan Poe “chi sogna di giorno sa molte cose che sfuggono a chi sogna solo di notte”) conferiscono una certa dinamicità inventiva alla narrazione, permeando ogni avvenimento di un necessario candore fanciullesco nel dare spazio immaginifico ad un mondo diverso a quello che le si prospetta innanzi, anche nella sofferta consapevolezza che la realtà possa essere ben diversa, come può ravvisarsi nella bella sequenza finale. Un film, andando a concludere, forse discontinuo nel tentativo di conciliare dramma e commedia, per quanto, in fondo, nel mondo reale credo che tale discontinuità possa ritenersi il sale della vita, alternando originalità e qualche velleità derivativa (l’intonazione in auto di Se mi lasci non vale, Julio Iglesias, 1976, sequenza piuttosto morettiana, credo sia stato notato da molti; l’atmosfera “alla francese”); si sostanzia complessivamente come un’opera del tutto sincera e permeata di una concreta sensibilità rivolta al mondo dei minori, senza dimenticare la raffinatezza propria della composizione visiva.
E’ quest’ultima, infatti, a rendere gli elementi surreali quale fulcro portante di una narrazione piuttosto sagace nell’offrire, per il tramite di uno sguardo innocente e puro qual è quello di Alma, un suggestivo ponte visuale fra la vita idealizzata a proprio uso e consumo e quella che ci si ritrova ad affrontare giorno per giorno.

* The Six Million Dollar Man, serie televisiva statunitense liberamente ispirata al romanzo Cyborg di Martin Caidin, trasmessa originariamente negli Stati Uniti tra il 1974 e il 1978 dalla ABC (tre episodi pilota e cento ordinari). Protagonista, nei panni dell’uomo bionico Steve Austin, Lee Majors. Da qui derivarono un’altra serie, in chiave di spin-off, The Bionic Woman, 1976-1978 (protagonista Lindsay Wagner) e sei film per la tv.
L’ha ripubblicato su Lumière e i suoi fratelli.
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