Fra i vari tentativi che si sono susseguiti nel corso di questi ultimi anni volti a far emergere dalle secche dell’intrattenimento generalizzato senza colpo ferire il genere dell’italica commedia, mantenendo un afflato popolare ma volgendo un occhio attento ad una congrua combinazione, “agitata, non mescolata”, tra ironia e disamina sociale, ritengo meritino di essere evidenziati quelli portati avanti, pur con risultati discontinui, da Riccardo Milani, sottolineando però come la mia anima cinefila rivendichi a Paolo Virzì la concretezza di una prosecuzione della commedia all’italiana propriamente detta, capace di conciliare dramma ed ironia, senso del grottesco e lucida analisi dalla portata anche sociologica. Gli sforzi di cui sopra profusi da Milani credo abbiano trovato un assestamento, a mio avviso dalla portata più potenziale che definitivamente concreta, nelle sue due ultime realizzazioni, Come un gatto in tangenziale (2017) ed il recente seguito Come un gatto in tangenziale-Ritorno a Coccia di Morto, dei quali ha firmato anche la sceneggiatura insieme a Giulia Calenda, Furio Andreotti e Paola Cortellesi, quest’ultima protagonista di ambedue i film. La narrazione complessiva riesce a mettere insieme, soprattutto nel secondo capitolo, una valida commedia di costume, intensa ad evidenziare quella profonda spaccatura presente nel nostro paese fra determinate categorie sociali, superabile a partire da un paventato e quindi inevitabile scontro, nell’augurio che quest’ultimo possa mutare in un confronto ed infine in un salutare punto d’incontro, mantenendo comunque i rispettivi punti di vista, rinvenendo nella diversità il cemento di una salda eguaglianza fra simili.
Sinceramente il primo titolo non mi aveva del tutto convinto, pur avendone apprezzato alcuni spunti della sceneggiatura e, soprattutto, la recitazione, misurata, attenta anche alla mimica dello sguardo, di Antonio Albanese nei panni di Giovanni, benestante intellettuale che presiede un think tank volto all’analisi delle politiche pubbliche sociali, lavorando d’intesa col Governo per ottenere finanziamenti dal Parlamento Europeo destinati alla riqualificazione delle periferie, e quella di Paola Cortellesi nelle vesti di Monica, mantenendosi sempre entro le classiche righe e sottolineando gli aspetti del personaggio con l’abbigliamento e dialoghi atti ad evidenziarne l’aura cinica e disillusa, “frutto periferico” con un passato di cassiera in un supermercato, poi sostituita da una cassa automatica ed ora lavoratrice saltuaria in una mensa per anziani. I due si trovavano alle prese con l’innamoramento dei rispettivi pargoli, Agnese (Alice Maselli) ed Alessio (Simone De Bianchi), venendo così a conoscenza di mondi finora ravvisati solo nelle loro stereotipate teorizzazioni. In particolare mi era apparsa fin troppo schematica, avallante luoghi comuni come un fiume in piena (mi tornavano in mente alcuni film dell’ Albertone nazionale, come l’episodio La camera del film collettivo Le coppie, 1970), la contrapposizione fra un progressismo “sinistro”, tutto pensiero ed idealismo esibito ma, avvolto dalla bambagia del “buon nido borghese” e confortato ad oltranza dalle proprie sicumere intellettuali, poco avvezzo alla quotidianità più terrena e problematica, le cui pressanti urgenze trovano terreno fertile in una realtà periferica “universo a parte” nella sua dimensione microcosmica.
Riguardo la visualizzazione di una classe politica che vede sciogliersi quale neve al sole i propri ideali, in passato non solo teorizzati ma oggetto anche di lotte sul campo, più che la diatriba tra il compassato funzionario e la prorompente borgatara avevo trovato maggiormente convincente l’aspro dialogo fra Luce, l’eterea ex moglie di Giovanni (una stupenda Sonia Bergamasco) rientrata a Roma dal suo buen retiro in Provenza a coltivar lavanda, e il truce Sergio, di ritorno dalle patrie galere, marito di Monica, coiffeur esperto in taglio, non solo delle chiome, personaggio fin troppo macchiettistico, interpretato comunque con immedesimativa efficacia da Claudio Amendola. Ritorno a Coccia di Morto invece ha maggiormente incontrato i miei favori, in primo luogo perché Milani e la sua squadra non si sono adagiati sugli allori del successo riscontrato, cercando invece, pur rispettando pedissequamente l’impianto originario, di mettere in scena qualcosa di maggiormente definito, a partire da un incipit narrativo che smonta quanto finora dato per scontato, ovvero Alessio ed Agnese non stanno più insieme, si ritrovano casualmente in quel di Londra, all’interno di un pub dove il primo lavora come cameriere, mentre la seconda, ora accompagnata da un nuovo ragazzo, sta frequentando un college, come ultimo anno di liceo. Lo stesso è avvenuto fra Giovanni, che adesso ha al fianco Camilla (Sarah Felberbaum), pubblicitaria inserita nel suo progetto Spazio vivo, inteso ad offrire uno spazio culturale all’interno di una zona periferica della Capitale, e Monica, che, causa il solito “shopping compulsivo” delle sorellastre Pamela e Sue Ellen (Alessandra e Valentina Giudicessa), le quali hanno provveduto a nascondere quanto rubato in due latte d’olio della sua pizzeria, è stata arrestata e chiede aiuto proprio all’ “uomo di pensiero” per far sì che possa godere di una pena alternativa. Verrà quindi destinata alla parrocchia di San Basilio, gestita dal giovane Don Davide (Luca Argentero). Ovviamente, con Giovanni a farle da garante, le vicissitudini non mancheranno, così come rinnovati approcci esistenziali in odor di reciprocità.
Ritorno a Coccia di Morto parte un po’ in sordina, prendendosi tutto il tempo necessario ad allestire gli elementi essenziali intesi a dar vita alle varie vicende che andranno a susseguirsi, sempre rispettando il consueto schema sopra descritto della contrapposizione bellicosa che si evolverà in un quasi pacifico venirsi incontro nel contemperare le rispettive istanze ed aspettative (molta bella la sequenza in cui Monica constaterà con i propri occhi quanto possa essere rilevante il ruolo della cultura contro degrado e strisciante omologazione), anche se adesso il tutto assume contorni meno netti e in certo qual modo più realistici, mentre gli stereotipi appaiono impiegati funzionalmente al narrato o comunque caratterizzati ironicamente, anche se qua e là riecheggia il già visto, vedi la sequenza in montaggio alternato degli incubi di Giovanni e Monica, che richiama, fra l’altro, quella ricorrente nella fiction Tutti pazzi per amore, della quale Milani ha diretto vari episodi, arricchita da godibili riferimenti cinefili a Il settimo sigillo e Shining. Lodando sempre la bravura di Albanese e della Cortellesi, quanto mai efficaci nel gioco di spalla reciproco, da citare poi la riuscita dei personaggi secondari, dalle ingombranti gemelle alla meravigliosa Sonia Bergamasco, che qui dona alla sua Luce inediti sprazzi da “mistica sensuale”, mentre fra i nuovi entrati se la Felberbaum appare costretta in una dimensione stereotipata, Argentero mi è sembrato invece a suo agio nelle vesti di Don Davide, sacerdote più aduso a conferire un senso quotidiano alle Sacre Scritture che a dar retta ai comunicati della Santa Sede o ai malumori espressi dai soliti sepolcri imbiancati.
Si staglia quindi nitido l’assunto che un vero e concreto contatto umano, alla luce del considerare il prossimo essenzialmente come una proiezione dei propri bisogni e delle propria condotta di vita, possa e debba andare a costituire l’asse portante di un’integrazione del tutto simbiotica con le reciproche individualità, riprendendo quanto scritto nel corso dell’articolo, attuando tutto ciò non solo, o non soltanto, dal pulpito dei buoni propositi e degli illuminati pensieri, ma riscoprendo una volta per tutte un necessario contatto con la massa, sporcandosi realmente le mani nel mettere in pratica quanto idealmente teorizzato, ricordandosi sia che l’empatia non è qualcosa di commercializzabile o passibile di sponsorizzazione, sia che “il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato”(Vangelo di Marco, 2,27). Certo, non tutto l’iter narrativo è attraversato da una satira propriamente incisiva, forse si potrebbe scrivere, azzardo, che si sia in certo qual senso tornati ai tempi dell’allora tanto deprecato “neorealismo rosa” nel volgere un occhio alle vicende sentimentali e l’altro alla disamina sociale, mentre qua e là serpeggia la sensazione di essere di fronte ad un calcolato franchise teso alla serializzazione di stampo televisivo, considerando come sia più che probabile un terzo episodio (nel finale sono stati allestiti tutti gli elementi narrativi per darvi vita, nella speranza ci si ricordi che tre è il numero perfetto). Nel complesso Ritorno a Coccia di Morto, andando a concludere, costituisce un valido compromesso fra sorriso (dal retrogusto amaro) e riflessione, senza cedere alla sguaiataggine, coniugando sana leggerezza ed attenzione alla compostezza contenutistica e visuale. Ma la strada per una commedia italiana concretamente cinematografica è ancora lunga.
2 risposte a "Le discese ardite e le risalite della commedia italiana, fra gatti e tangenziali"