Piazzolla. La rivoluzione del tango (Piazzolla, los años del tiburón, 2018)

Astor Piazzolla, un nome la cui pronuncia evoca il sentore di suggestioni indimenticabili, nel sentirsi piacevolmente avvolti da sonorità suadenti, che richiamano i ritmi propri del tango argentino, permeate però da inedite tonalità jazz, attraversate poi da una miscellanea di dissonanze generate dall’inedita e “violenta” combinazione delle note scaturenti dal bandoneón con quelle proprie degli altri strumenti che andranno ad integrarlo nel corso dell’esecuzione, quali l’organo Hammond, il flauto, la marimba, il basso elettrico, la batteria… Un’innovazione d’avanguardia, a cavallo fra spontanea genialità ed intuitiva sperimentazione, che risentiva delle influenze musicali acquisite dal geniale musicista durante l’infanzia e l’adolescenza trascorse a New York, dove i genitori, di origine italiana, emigrarono nel 1925, per poi far ritorno nella natia Argentina (Mar del Plata, 1921) dodici anni più tardi, percorso che anche il nostro andò a conoscere, tra varie difficoltà, con la sua famiglia.

Astor Piazzolla

Considerando come a marzo 2021 si sia celebrato il centenario della nascita di Piazzolla, giunge a proposito il documentario scritto e diretto da Daniel Rosenfeld, Piazzolla. La rivoluzione del tango, uscito nelle sale italiane venerdì 8 ottobre, distribuito da Exit Media, in quanto riesce a delineare nel corso dell’iter narrativo un ritratto intensamente intimo tanto dell’artista quanto dell’uomo, visualizzato dal regista in virtù di un vivido e fluido intarsio d’immagini, potendo contare sulla notevole quantità di materiali che gli è stata fornita dal figlio di Astor, Daniel, del quale nel corso della narrazione si ricostruisce il rapporto conflittuale con la figura paterna.

La narrazione rimarca quindi la profonda confluenza fra le due entità, in virtù di una propensione alla sfida sia nell’ambito musicale, nel desiderio di dar vita ad una ritmicità che potesse attingere dalla tradizione, sviluppando al contempo qualcosa d’inedito, in nome di uno sperimentalismo sostenuto sempre e comunque dalla ricerca costante dell’innovazione mai fine a se stessa, sia poi nella quotidianità, con Piazzolla animato da un’irrequietezza dal sentore hemingwayano nel ricercare inedite emozioni, come la pesca agli squali o il mai domato desiderio di rinvenire una folgorante scintilla vitale, non soffermandosi quindi sul passato, se non quale idoneo legame alle proprie origini, vedi il continuo richiamo alla figura paterna, riconoscendone i sacrifici messi in atto per assecondare la sua passione nei confronti della musica, cui dedicò la celebre Adios Nonino.

(Corriere della Sera)

Filmini in Super 8, riprese dei principali concerti, registrazioni audio (come la bella chiacchierata con la figlia Diana, che intermezza spesso lo scorrere delle immagini, caratterizzandole ulteriormente del sentore proprio del “bel racconto”), filmati d’epoca, offrono agli spettatori la tangibilità delle sensazioni proprie degli anni in cui Astor Piazzolla andò ad esternare le sue intuizioni musicali, notando come nell’Argentina del tempo i giovani guardassero soprattutto alla musica americana, agli autori jazz o al neonato Rock and Roll, cui dedicare i loro balli, attratti da una sonorità a loro sconosciuta, attirandosi comunque le ire dei tradizionalisti, che videro tradita l’essenza propria di una musica rappresentativa della nazione. E poi, su tutto, ecco le sue composizioni a fare da colonna sonora, incrementando la portata evocativa e sensoriale di un documentario mai oleografico, da sentire ancor prima che da guardare, lasciandosi andare all’emozionalità sensuale delle note e a quella scaturente dai tanti ricordi di un uomo costantemente alla ricerca di un inedito significato da conferire alla propria vita e alla propria arte, riprendendo in chiusura quanto scritto nel corso dell’articolo. Dove le parole non arrivano… la musica parla (Ludwig van Beethoven).

Già pubblicato su Lumière e i suoi fratelli- Cultura cinematografica e crossmedialità


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