Parigi, 1967, sabato 4 aprile, ore 18. All’interno del suo appartamento, dove solo il mesto cinguettio di un uccellino in gabbia rompe il silenzio della solitudine, scandendo ogni attimo che passa, Jef Costello (Alain Delon) si accinge ad eseguire l’incarico affidatogli, l’omicidio su commissione del titolare di un locale notturno. Impermeabile stretto in vita, Fedora ben calzato sulla testa, si appresta dunque a rubare un auto, alla quale un “compare” provvederà a cambiare il numero di targa, consegnandogli anche una pistola. Prepara minuziosamente un doppio alibi, tale da coprire sia un intervallo di tempo che vada dalle 19 alle 2 circa, servendosi al riguardo dell’amante Jane Lagrange (Nathalie Delon), sia le ore successive, accordandosi con dei conoscenti, intenti ad organizzare una partita a poker. Una volta assolta la commissione, Jef nell’uscire dall’ufficio dell’ucciso sarò notato dalla pianista Valerie (Cathy Rosier), anche se al momento del confronto al commissariato fingerà di non riconoscerlo, mentre gli altri lavoranti rilasceranno dichiarazioni discordanti. L’ispettore (François Périer) ritiene Jef colpevole, nonostante l’alibi fornito da Jane, che sarà messa sotto torchio, anche se poi l’altro uomo cui si accompagna, Wiener (Michel Boisrond), sosterrà di averlo visto uscire dal palazzo mentre lui si recava dalla donna intorno le 2, per cui il nostro verrà rilasciato. La polizia resterà comunque sulle sue tracce, organizzando pedinamenti ed intercettazioni ambientali, ma Jef, sempre agendo in solitaria, “come un tigre nella giungla”, riuscirà a sfuggirle, dovendo inoltre darsi da fare per difendersi dalle manovre dei mandanti dell’omicidio, timorosi che possa spifferare tutto sui loro loschi traffici se venisse arrestato. Fra domenica e lunedì le ore trascorreranno fra inseguimenti e rese dei conti: Jef, in sfregio a qualsiasi regola, seguirà fino all’ultimo istante di vita il proprio codice comportamentale…
Il genere Polar, neologismo coniato dalla critica francese congiungendo i termini policier, poliziesco, e noir, tende ad unificare, anche se non necessariamente a legare strettamente fra di loro, due diversificazioni portanti del thriller propriamente detto, un genere che ha visto quale regista particolarmente incline a delinearne determinati stilemi, a partire dagli anni ’50, Jean-Pierre Melville (J. P. Grumbach all’anagrafe, 1917-1973), dopo essere stato fra i precursori della Nouvelle Vague, la “nuova onda” del cinema transalpino che prese piede tra la primavera del ’59 e l’autunno del ’63, spazzando via l’accademismo ereditato dagli anni ’30 e sostenendo la “politica degli autori”, i diritti del regista quale padrone assoluto del linguaggio cinematografico. La primaria fonte d’ispirazione riguardo il suddetto genere è stata certo il noir americano, smarcandosene però nell’avallare una suggestivo lavoro di stilizzazione rivolto a scenografie e costumi, senza dimenticare il lavoro sulla fotografia, in particolare nell’ambientazione notturna, tale da rimarcare l’ambiguità allusiva dei protagonisti, già evidenziata congruamente dai dialoghi, asciutti ed essenziali. E’ quanto si nota soprattutto nel film in esame, Le samouraï (stendiamo un pietoso velo sul titolo scelto per la distribuzione italiana, sulla quale si riversarono le ire del regista, Frank Costello faccia d’angelo, che si rifà, mutando persino il nome del protagonista, alle gesta del noto gangster italo americano), di cui Melville è stato anche sceneggiatore: assecondando un ritmo narrativo volutamente ponderato, le modalità di ripresa seguono sempre il passo del protagonista, attente a circoscrivere ogni elemento dell’ambiente circostante, le strade trafficate di Parigi, i suoi desolati sobborghi, la gente di passaggio, assecondando così la casualità, l’accadimento materializzatosi dinnanzi all’obiettivo ed offerto all’elaborazione degli spettatori.
Regia e sceneggiatura sembrano soppesare sì un certo realismo nell’offrire rappresentazione all’ambiente malavitoso parigino, i cui componenti vedono quale uniche remore alle loro azioni il rispetto di stessi e del proprio atteggiamento esistenziale, ma all’interno di un’atmosfera in certo qual senso neutra, sulla quale va a stagliarsi il sentore strisciante dell’ineluttabilità del destino, un qualcosa di ricercato e voluto nella sua indefinibilità e tale da rendere definitive determinate condotte umane: ecco allora la macchina da presa nella sua mobilità circoscrivere la dimensione spazio-temporale della vicenda, che ha il suo svolgimento nell’arco di tre giorni, dando spazio più che all’azione vera e propria, comunque presente, a quanto condurrà ad essa, il risolutivo scontro finale, che vedrà nella morte, preventivata e addirittura allestita minuziosamente, al di là di qualsiasi regola morale o sociale costituita, riprendendo quanto scritto nel corso dell’articolo, che renderanno a Jef, interpretato da un Alain Delon quanto mai imperturbabile ed algido, killer dai gesti ieratici dalla consistenza ritualistica (il sistemarsi la tesa del cappello prima di uscire, il furto di un solo tipo di vettura, la Citroen DS), la figura di una sorta di moderno cavaliere o, meglio, seguendo la linea formalistica giapponese quale anima pulsante della narrazione, di un ronin, il samurai che riconosce quale unico padrone la propria condotta morale, al cui servizio pone ogni suo gesto ed ogni sua azione, riscattando nell’estremo gesto finale una condotta di vita non propriamente adamantina e comunque, paradossalmente, ben più pulita di quella dei “colleghi” o delle persone con cui va a relazionarsi, fino agli stessi funzionari delle forze dell’ordine (vedi il gioco sporco, ricattatorio, messo in atto dal commissario nei confronti di Jane, per indurla a confessare la falsità dell’alibi del suo uomo, rimarcando la possibilità di chiudere un occhio riguardo la sua libertà nei costumi).
Un personaggio mutuato anche dall’universo dell’hard boiled americano e delle sue trasposizioni sul grande schermo, riprendendo in particolare, come notato da molti critici dell’epoca, il Raven personificato da Alan Ladd in This Gun for Hire (Frank Tuttle, 1942, dal romanzo A Gun for Sale, Graham Green, 1936), nell’essere apparentemente refrattario ad ogni emozione, del tutto sradicato dal contesto sociale, non legato ad alcuna organizzazione criminale se non per specifici mandati e ligio nel seguire una personale condotta comportamentale, da cui si differenzia per la maggiore propensione al non detto, che ne accentua determinate caratteristiche psicologiche e comportamentali e lo rende figura per lo più simbolica. Le samouraï, andando a concludere, può considerarsi una delle migliori realizzazioni di Melville ed una delle più intense interpretazioni di Delon, rappresentando tanto un raffinato compendio visivo delle caratteristiche complessive proprie del noir americano quanto una loro trasmutazione verso toni maggiormente cupi ed introspettivi, a lambire quella sponda oscura dell’animo umano, dove Dal peccato divise le due parti dell’essere, l’una e l’altra troveranno debita morte (Holy Sonnets, John Donne), il tutto racchiuso nella cornice di una rarefatta messa in scena, citando in chiusura l’esemplare lavoro sulla fotografia di Henri Decaë.
Pubblicato su Diari di Cineclub n. 99- Novembre 2021
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