Presentato nella sezione Panorama alla 72ma Berlinale, Una femmina vede l’esordio alla regia di Francesco Costabile nei lungometraggi di finzione dopo i trascorsi relativi a cortometraggi (Dentro Roma, 2006) e documentari (L’abito e il volto. Ritratto di Piero Tosi, 2008; In un futuro aprile-Il giovane Pasolini, 2019), dando vita ad una pellicola che trae ispirazione tanto da eventi reali quali le storie di Maria Concetta Cacciola e Giusy Pesce, fra le prime donne a ribellarsi al potere malavitoso, quanto da un’idea di Edoardo De Angelis e Lirio Abbate, quest’ultimo autore del libro inchiesta Fimmine Ribelli. Come le donne salveranno il paese dalla n’drangheta (Bur, 2013) così come della sceneggiatura del film, insieme a Serena Brugnolo, Adriano Chiarelli e lo stesso Costabile. Confesso di essermi accostato alla visione un po’ prevenuto, temevo di ritrovarmi in mezzo ad un’offerta speciale di stereotipi un tanto al chilo, come a volte succede quando si tratta di narrazioni incentrate sulle problematiche del Sud Italia, ma nel corso dell’incedere narrativo mi sono dovuto ricredere, rimanendo piacevolmente sorpreso, ma anche profondamente scosso, dalle modalità rappresentative delineate da Costabile, volte essenzialmente, riporto la mia primaria impressione, a trasmettere agli spettatori la stessa oppressione, il profondo disagio fisico e mentale, che attanagliano la giovane protagonista, Rosa, interpretata con sentita immedesimazione dall’esordiente Lina Siciliano, incline ad esprimere ogni emozionalità, da quelle più evidenti a quelle dolorosamente trattenute, con lo sguardo ancor prima che con la gestualità o le parole.
Il regista infatti rende il paese arroccato sulle montagne cosentine (Verbicaro) come un “non luogo”, un arcadico microcosmo, una sorta di “riserva indiana” lontana da tutto e da tutti, tenacemente attaccata alle proprie tradizioni e ad un modus vivendi improntato ad un arcaico codice comportamentale, incline ancora ad attingere e trarre forza vitale dai trascorsi più intimi e profondi quali valori da custodire e tramandare, congruo simbolo quindi di un qualsivoglia territorio dove non vi sia una condivisione, culturale ed umana, di diverse esperienze atte ad operare necessarie trasformazioni ed aperture, oltre alla mancanza di un congruo apporto istituzionale a sostenere l’idea di una vera e propria comunità. Avvalendosi poi del contributo sinergico offerto da una fotografia a tinte forti (Giuseppe Maio) e di una colonna sonora (Valerio Camporini Faggioni, Simone Usai) altrettanto cupa ed incisiva, Costabile visualizza, per il tramite di stilemi che mescolano melodramma, thriller e, per certi versi, anche l’horror, il graduale riemergere dai meandri dell’inconscio più profondo della protagonista di un tragico avvenimento riguardante sua madre, “femmina da domare” che aveva osato sfidare l’ immarcescibile dominanza maschile fondata sull’acquiescenza, quel “codice d’onore” aduso comunque a consentire l’esercizio del potere anche da parte di quelle donne che si rendevano complici nella gestione dell’organizzazione familiare (“o con noi o con loro”, è l’ultimo avvertimento di Berta, Anna Maria De Luca, nei confronti della figlia Cetta, mamma di Rosa).
Cresciuta quindi con la nonna e lo zio Salvatore (Fabrizio Ferracane), padre del problematico Natale (Luca Massaro), Rosa prenderà presto coscienza di quanto accaduto nella sua infanzia e confortata dall’aiuto di Gianni (Mario Russo), col quale vivrà una sofferta relazione amorosa, cercherà d’infrangere la barriera omertosa che la circonda, ricorrendo anche, almeno inizialmente, alla violenza vendicatrice e al compromesso, in guisa di un disperato e personale senso di giustizia, tanto forte da sfuggire ad ogni possibile inquadramento sociale o istituzionale, nell’obiettivo di far sì che passato e presente possano lasciare spazio ad un inedito futuro. Forte di un valido cast, al cui interno, oltre alla già citata Siciliano, emergono in particolare figure femminili come la nonna resa con vibrante intensità da Anna Maria De Luca (da brividi la sequenza verso il finale, quando rivive fisicamente quanto fatto subire alla figlia) o la zia Rita cui Simona Melato offre tutto il dolore silente e rappreso di una sofferta consapevolezza assertiva, Una femmina sembra mitigare le potenzialità che gli sono proprie, a partire da una regia che lega con efficacia antropologica territorio e personaggi, ammantando entrambi di tragicità e dolente mistero, mano a mano che procede verso il finale: vi è forse un’eccessiva insistenza su un’ovvia melodrammaticità, che trova comunque plateale sfogo in una efficace sequenza conclusiva dalla consistenza quasi onirica, nonché metaforica e catartica, nel visualizzare un necessario riscatto dalla condizione di sudditanza, dal valore universale, il liberarsi dal velo vedovile delle fossilizzate abitudini e convenzioni, schermo protettivo nei confronti di ogni avvenimento che potesse rivelarsi distante da quella convenienza sociale cui si era pensato di essere debitrici riguardo la propria sopravvivenza, avviandosi quindi compiutamente verso l’emancipazione e l’autodeterminazione.
L’ha ripubblicato su Lumière e i suoi fratelli.
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