Non so voi, amiche lettrici e amici lettori, ma personalmente quando le notti si rivelano scandite dal regolare ritmo dell’insonnia propendo a dare un senso a quest’ultima col ricorso alla ben fornita libreria di famiglia, sui cui scaffali si alternano, in ordine sparso, tomi di rilievo, classici e moderni, a fumetti d’epoca, oppure, quando mi assale un immotivato senso d’inquietudine, attingendo alla visione, momentaneamente orfano della sala, di qualche film o serie web/televisiva, mentre Boghy, il mio compagno a quattro zampe, sbuffa infastidito per poi riprendere, almeno lui, il sonno del giusto. Di recente, nel corso di queste scorribande notturne, la curiosità mi ha spinto a visionare su RaiPlay la serie, in dieci puntate, Il Santone – #lepiubellefrasidioscio e poi un film reso disponibile su Netflix dopo una breve uscita al cinema, Il filo invisibile, per la regia di Marco Simon Puccioni: entrambe le realizzazioni, per i motivi che andrò ad esplicare, mi hanno piacevolmente sorpreso, vuoi per la capacità d’intrattenere con sana e sapida leggerezza, vuoi per un’ironia arguta ed opportunamente dosata, non scevre entrambe dall’offrire comunque concreti spunti di riflessione relativi all’odierno panorama sociale, al cui interno un pregnante senso di umanità non sempre è presente in congrua misura, nella dominanza di un’ostentata esteriorità, spesso conclamata da un reiterato “posto ergo sum”. Apriamo le danze con Il Santone – #lepiubellefrasidioscio, che trae ispirazione dalle vignette satiriche Le Più Belle Frasi di Osho opera di Federico Palmaroli, presente anche nella nutrita squadra di sceneggiatori (Tommaso Capolicchio, Giulio Carrieri, Simona Ercolani, Filippo Gentili, Giulia Gianni, Laura Grimaldi, Vanessa Picciarelli, Pietro Seghetti), mentre la regia è di Laura Muscardin.
La narrazione prende piede nel quartiere romano di Centocelle, dove vive l’antennista Enzo Baroni (Neri Marcorè), fare bonario e aria meditativa, insieme alla moglie Teresa (Carlotta Natoli), infermiera, molto più sanguigna e combattiva, e la figlia adolescente Novella (Beatrice De Mei). Vediamo la famiglia alle prese con i consueti affanni quotidiani, fra gli ormai numerosi arretrati dell’affitto e un rapporto di coppia non del tutto idilliaco, un reiterarsi di comportamenti e situazioni che vedrà la sua interruzione con la scomparsa improvvisa di Enzo, il quale farà ritorno dopo ben sei mesi, apparendo come trasfigurato: barba importante, un immacolato mundu indosso, aria ancora più serafica ed atarassia nirvanica da vendere, tanto da riuscire a trovare rimedio per ogni situazione incresciosa ricorrendo alla calma, congiunta all’esternazione di massime traenti origine dalla saggezza popolare ed ora acclamate dalla moltitudine in qualità di inedite parabole pronto uso, vedi l’ammansimento del ras del quartiere, dedito allo spaccio e a vari “affari”, all’insegna del mantra “ciò che non ti uccide ti rompe li co**ni”. In virtù di video e post vari sparsi fra i social, il nostro andrà a conseguire enorme popolarità, tanto da far gola a tale Jacqueline Bonnet (Rossella Brescia), agente televisiva che intenderebbe servirsi della sua immagine quale opportuno grimaldello atto a scardinare il consenso popolare alle ormai prossime elezioni comunali, ovviamente appoggiando il “miglior offerente” fra i candidati. Ma la verità sul novello santone non tarderà a venir fuori…
La regia di Laura Muscardin rende Centocelle un simbolico microcosmo, rappresentativo di molte altre realtà periferiche e delle loro problematiche (dal disagio causato dai rifiuti o dalle buche lungo le strade, che qui assurgono anche a simbolo dell’ignavia istituzionale, divenendo esse stesse personaggio, alla mancanza di ogni riferimento culturale), rimarcandone una verace matrice popolaresca che tanto richiama, almeno riporto la mia primaria impressione, quei caratteri e quelle atmosfere che avevano trovato spazio nelle commedie all’italiana di fine anni ’70 (una su tutte, Febbre da cavallo, Steno, 1976), alternando, in particolare nei personaggi secondari (come gli amici di Enzo, interpretati da Fabrizio Giannini e Davide Devenuto), bonomia, indolenza e voglia di riscatto. Nel corso della narrazione va anche a delinearsi con una certa efficacia, per quanto non sempre propriamente incisiva, una satira rivolta ad una società ormai incredula e smarrita relativamente ai propri valori fondanti, persa nel culto dell’immagine perpetrato dal combinato disposto TV/social, in perenne attesa dell’apparizione di una stella cometa che possa palesare l’arrivo di una figura di riferimento, propensa ad offrire certezze un tanto al chilo come a fungere da cartina di tornasole nell’evidenziare difficoltà e aspirazioni, magari all’interno di una classe politica camaleontica nel mutare colorazione a seconda delle situazioni, sostenendo non certo i propri ideali, ormai morti e sepolti, bensì la migliore opportunità che possa garantirle il “portapiume” ben saldo sulla poltrona.
Non tutti gli episodi, in particolare quelli che volgono verso il finale, godono di eguale ritmo e compattezza narrativa, ma questa web serie di “mamma Rai” convince sia per la descritta ambientazione, circoscritta da una valida regia e un buon lavoro di scrittura, sia in particolare per l’ottimo cast, incline a conferire una compiuta coralità al narrato, con l’accoppiata Marcorè e Natoli, già sperimentata in Tutti pazzi per amore, in gran spolvero: il primo rende alla perfezione la svagatezza esistenziale del personaggio, un po’ Chance the Gardener (Peter Sellers) di Oltre il giardino (Being There, Hal Hashby, 1979, dal romanzo di Jerzy Kosinski), un po’ il Pippo disneyano, fra ovvietà prese per verità conclamata e “viaggi senza canne”, mentre la seconda dona alla sua Teresa una suadente mescolanza di disincanto, ironia e cinismo pratico. Valida anche la resa interpretativa di Rossella Brescia, in particolare quando l’arrivista mediatica che interpreta verrà fuori al naturale. Probabile una seconda serie, attendiamo. Ed ora andiamo a Il filo invisibile, regia di Marco Simon Puccioni, autore della sceneggiatura insieme a Luca De Bei, un film che si palesa alla visione con gli stilemi propri di un teen movie, alternati a quelli inerenti tanto ad un racconto di formazione quanto ad una commedia degli equivoci, suffragando ironia e leggerezza nel tentativo, riuscito, di andare incontro ad un pubblico il più vasto possibile.
La narrazione viene filtrata attraverso lo sguardo del sedicenne Leone (Francesco Gheghi), intento a realizzare la ricerca scolastica di fine anno in forma di video, incentrata sulla realtà delle coppie omosessuali con figli, i diritti loro negati o conquistati nel tempo dopo tante, troppe, discriminazioni, a partire dal poter costituire una coppia civile e vedersi riconosciuta dalla legge quella reciproca genitorialità già acquisita nei fatti, nella precipua considerazione di come il nucleo familiare perfetto probabilmente non esista, spot pubblicitari a parte, tanto da poterlo considerare un ideale di comodo: esiste e resiste, invece, un modello familiare fuori dai consueti canoni, avvolto egualmente da affetto e comprensione ove si dia spazio al dialogo e alla capacità di venirsi incontro, mettendo al bando egoismi e ripicche. D’altronde Leone può vantare un’esperienza diretta al riguardo, figlio di Paolo Ferrari (Filippo Timi), architetto, titolare e gestore di un negozio d’arredamento e Simone Lavia (Francesco Scianna), che ha lasciato la carriera universitaria per gestire un locale di ristoro, sposati civilmente dopo la lunga attesa relativa al riconoscimento di tale possibilità, mentre la mamma è l’americana Tilly (Jodhi May), donatrice di utero, grembo ospitante il nascituro al di là dell’oceano, considerando le restrizioni della nostra legislazione al riguardo.
Nel narrare in parallelo la crisi fra Paolo e Simone causa il tradimento perpetrato da quest’ultimo e la graduale presa d’identità di Leone, anche sessuale, che può contare sull’amicizia del compagno di scuola Jacopo (Emanuele Maria Di Stefano) ed ha una cotta per la coetanea Anna (Giulia Maenza), smarcandosi al riguardo con fatica dalle solite etichette che la gente è propensa ad affibbiare in virtù di facili generalizzazioni (se sei figlio di genitori gay automaticamente lo sei anche tu, in sintesi), Il filo invisibile delinea nel corso della narrazione il pregio essenziale di raccontare le vicende di una coppia ritenuta genericamente e sbrigativamente “diversa” quali manifestazione naturale di un desiderio sessuale o di un sentimento amoroso tout court, al di là di qualsivoglia classificazione, espressi ambedue in quanto tali, nella piena ed appagante accettazione della propria individualità, dal loro sorgere alla loro fine, quest’ultima non sempre evitabile: ecco allora, nella circoscrizione dell’agiato “buon nido borghese”, il sentirsi trascurati perché il compagno non ti riserva le attenzioni premurose di un tempo, fino a trovare rifugio tra le braccia di un altro, scatenando ripicche e malumori lungo un percorso che porterà alla separazione, con le problematiche che ne conseguiranno, soprattutto relativamente all’affidamento dei figli, considerando la rigidità astrusa e quanto mai lontana dal buon senso della nostra legislazione, tristemente bloccata sul ritenere la diversità quale scriminante in odor di una esibita pruderie, portando la memoria all’effige dei sepolcri imbiancati d’evangelica memoria.
Considerando come l’obiettivo della macchina da presa, riprendendo quanto già scritto, coincida con lo sguardo di Leone, interpretato con realistico e toccante trasporto immedesimativo dal giovane Gheghi, ecco dominare sul finale la sua nitida visione essenzialmente pura e libera da ogni condizionamento: al di là del legame di sangue, ogni singola persona esistente sul pianeta Terra è legata all’altra, a quel prossimo che altro non è che il suo riflesso, nell’alternarsi quotidiano di gioie e dolori, da un filo invisibile, la cui fibra è costituita da quell’umanità comportante in primo luogo accettazione e comprensione, fino a sviluppare l’idea che l’unica diversità conclamata sia quella resa possibile da ognuno di noi, nel fare la differenza percorrendo il comune cammino terreno scegliendo liberamente il proprio appagamento esistenziale, qualunque possa essere la nostra condizione sentimentale. Se il Leone di Gheghi rappresenta dunque l’anello di congiunzione fra i vari accadimenti narrati, appaiono piuttosto gustose, lontane da manierismi o luoghi comuni, le interpretazioni di Timi (impagabile nel rendere il dolore rappreso del tradimento, sfogandosi poi con tutta una serie di ripicche) e Scianna (più sobria e misurata nei toni), così come quelle di tutto il cast, in nome di una compiuta compattezza narrativa, anche se qualche sequenza appare fin troppo connotata dall’incedere della colonna sonora ed il tutto appare solcato da una marcata levità, funzionale comunque a raggiungere ogni tipo di pubblico, magari anche coloro che guardano con diffidenza e timore unioni civili e la possibilità di adozione da parte di coppie omosessuali (rappresentati nel film dal personaggio della madre di Anna, interpretata da Alessia Giuliani) o giovani confusi sulla propria identità complessiva (come il personaggio del fratello di Anna, Dario, Matteo Oscar Giuggioli). Bene, questo è tutto, grazie dell’attenzione e appuntamento alle prossime notti insonni…
2 risposte a "Visioni notturne, tra insonnia e voglia di leggerezza"