“Chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione, è punito con la reclusione da 5 a 15 anni”: così recitava l’articolo 603 del nostro Codice Penale, datato 1931, abrogato, dopo anni di battaglie in nome dei diritti civili, solamente nel 1981, quando la Corte Costituzionale ne dichiarò l’illegittimità con apposita sentenza. La citata disposizione di legge trovò applicazione per la prima volta nei confronti dell’intellettuale Aldo Braibanti, poeta, scrittore, sceneggiatore, drammaturgo, un passato di partigiano ed anche appassionato mirmecofilo, ovvero studioso della vita sociale delle formiche, spesso più propensa alla condivisione rispetto a quella umana, che venne accusato appunto di plagio nei riguardi del 23enne Giovanni Sanfratello, suo studente ed amico. Sottoposto a processo, durato quattro anni, dal 1964 al 1968, Braibanti si vide comminare una condanna a nove anni, che divennero quattro in appello, confermati poi dalla Cassazione e ridotti a due per la sua partecipazione alla Resistenza. Un modo, circoscritto dalle regole dei codici, perché il sistema potesse arroccarsi nella difesa di un’ “aura normalità” contro chiunque proponesse un’idea di amore, famiglia, comportamento sociale in genere, non allineato ad un irreggimentato canone comportamentale. Braibanti e Sanfratello erano infatti amanti e quest’ultimo venne sottoposto a pesanti “cure psichiatriche” per debellare “il demone che l’aveva posseduto”, oscurantista concezione retaggio dell’era fascista ed ancora fluttuante nell’opinione pubblica del tempo, in parte aliena dall’idealizzazione di un mondo finalmente differente, dove si è tutti eguali in quanto tutti diversi, principio d’altra parte formalmente e sostanzialmente garantito dalle norme costituzionali (Art. 3), ma a tutt’oggi, considerando come “i soliti noti” considerino “devianze” anche i disturbi legati all’alimentazione quali bulimia o anoressia, sempre messo protervamente in discussione.
Lunga, chiedo venia, ma necessaria premessa per introdurre la recensione del film Il signore delle formiche, diretto da Gianni Amelio, anche autore della sceneggiatura insieme ad Edoardo Petti e Federico Fava, presentato, in Concorso, alla 79ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, che, come da didascalia iniziale, a quei fatti realmente accaduti nell’Italia degli anni ’60 si ispira, andando a mutuare il nome del ragazzo coinvolto nel “caso Braibanti” in Ettore Tagliaferri, interpretato con reale e dolente trasporto dall’esordiente Leonardo Maltese. Viene introdotta inoltre la figura del giornalista de l’Unità Ennio Scribani (Elio Germano), a creare una sorta di collegamento con noi spettatori, coltivando triste consapevolezza e disillusione pur cercando di conferire un senso inedito all’incedere dei fatti coi suoi articoli (puntualmente “corretti” dal direttore, il giornale del primo partito proletario non può certo occuparsi delle vicende di un “pervertito”). Inoltre si vuole evidenziare con la figura della di lui cugina, Graziella (Sara Serraiocco), personaggio che a mio avviso avrebbe meritato una maggiore profondità, la presenza, nel conformistico disinteresse generale, di un movimento resistente, propenso a lottare per la garanzia dei diritti civili quali precipua garanzia alla soddisfazione del primario bisogno di essere sé stessi, nel rispetto ed affermazione della propria individualità. La narrazione non segue una linea temporale continua, bensì procede nella giustapposizione di diversi momenti, partendo da una Festa dell’Unità (con la proiezione di un film diretto da Kalatozov nel 1957, Quando volano le cicogne, storia di un amore reso impossibile dall’irrompere del II conflitto), dove Ennio individua la figura di Braibanti (Luigi Lo Cascio) e proseguendo con l’irruzione del fratello e della madre (Anna Caterina Antonacci) di Ettore nell’appartamento romano dove il giovane convive con il professore, sorprendendoli a dormire insieme.
Letteralmente prelevato con la forza, il giovane sarà subitamente internato in un ospedale psichiatrico, con un medico pronto a curarlo dalla sua “malattia” a suon di elettroshock e farmaci. Si torna indietro alla fine degli anni ’50, quando i due si conobbero all’interno del torrione Farnese di Castell’Arquato, Piacenza, dove Braibanti aveva allestito un laboratorio artistico in cui offrire ai giovani inedite modalità espressive riguardo teatro, letteratura, poesia, per poi arrivare, sempre nell’intersecazione temporale di determinati accadimenti, alla fase cruciale del processo. Ecco, se la prima parte del film, inappuntabile dal punto di vista formale, nel succedersi rigoroso delle inquadrature e dei piani sequenza, può apparire sofferente di qualche lentezza e a volte tendente al didascalismo, per quanto rilevante nel dare una precisa descrizione di ambienti, situazioni e personaggi in guisa di opportuno prologo, vedi la mirabile sequenza della festa romana, dove Ettore resterà inizialmente sconvolto da quella pirotecnica esplosione di felicità nell’ostentare ciò che realmente si è, sensazione tenuta a freno, per non dire repressa, nella vita di ogni giorno, quando Braibanti gli esternerà il proprio atteggiamento esistenziale (“io non sono come loro, ma sono anche come loro”), con l’ambientazione all’interno del “Palazzaccio” la narrazione si fa più ruvida, riuscendo ad offrire congruo e vivido risalto alla nostra beata involuzione: ipocrisie da sepolcri imbiancati d’evangelica memoria, bigottismo un tanto al chilo e pensiero retrivo, avallato quest’ultimo dal ricorso a Padre Pio e dal riecheggiare del suono delle campane, che, come sottolinea con acre realismo il giornalista Ennio al ridacchiante avvocato della difesa, non potrà fare altro che assicurare la vittoria processuale di quanti abbiano messo in piedi un’ignobile farsa solo per sottoporre pubblicamente al dileggio e confinare in galera quanti abbiano esternato pensieri ed atteggiamenti divergenti da una normalità imposta e calata dall’alto quale panacea di ogni male, peraltro presunto.
Splendida, con la camera fissa stretta sugli interpreti, rendendo così un simbolico distacco da quanti sono presenti in aula, evidenziando l’unicità propria di un pensiero non omologato, la resa dei piani sequenza che rappresentano gli interrogatori cui sono sottoposti Braibanti, perfettamente delineato da Lo Cascio nella sua aura oscillante tra astrattezza e consapevolezza, ed Ettore in particolare, piagato nel corpo (le cicatrici delle ferite arrecate dagli elettrodi visibili sulle tempie, la postura scomposta quale tributo al letto di contenzione, lo sguardo spaesato e le difficoltà nell’eloquio) ma ancora indomito nello spirito, interpretato con sorprendente naturalezza da Maltese. Entrambi declamano apertamente, senza esternare alcun cedimento se non quello inerente la propria emozionalità, che quanto è incorso tra di loro, persone adulte e consenzienti, non è stato altro che la manifestazione naturale di un desiderio sessuale e di un sentimento amoroso tout court, al di là di qualsivoglia classificazione, espressi ambedue in quanto tali, nella piena ed appagante accettazione della propria individualità, “atti contro natura” solo nella esacerbante pruderie propria di quella gente che non può fare a meno di dare buoni consigli “sentendosi come Gesù nel tempio”, in particolare “quando non può più dare cattivo esempio” citando un famoso brano di Fabrizio De Andrè (Bocca di rosa, 1967). Il tutto rimarcato dalle testimonianze rese dal fratello di Ettore (omosessuale represso, almeno riporto la mia primaria sensazione, spaventato dalle proprie sensazioni ancor prime che dal giudizio altrui) e soprattutto dalla madre, pinzochera fino al midollo (da brividi il dialogo, in chiesa, con la madre di Braibanti, la religiosità pelosa, tutta chiacchiere e sterili precetti della prima contro la misericordia propriamente evangelica manifestata dalla seconda), così come dall’interrogatorio esternato dal giudice, sottilmente ambiguo, serpentino e non lontano da una certa perversione, precipuamente a livello ideologico.
Ma anche le suddette esternazioni in propria difesa, così manifestamente pure, verranno adoperate dall’accusa a sostegno di un evidente plagio, mettendo in atto una vera e propria circuizione sotto l’avallo della legge, pur di assicurare il mantenimento dell’ideale farlocco di una congiunzione “naturale”, atta a preservare l’ideale di comodo del nucleo familiare perfetto, per non parlare della manifesta messa alla berlina di Braibanti per l’insuccesso delle sue pubblicazioni, come se la personalità di un uomo non potesse essere valutata semplicemente nella sua reale essenza di essere umano in quanto tale. Il signore delle formiche, andando a concludere riprendendo e puntualizzando quanto scritto nel corso dell’articolo, pur non potendo fare a meno di notare una diluizione a volte eccessiva nel fluire delle immagini, comunque appagante nella resa visiva e funzionale, conferendo opportuna dimensionalità ad ambienti, situazioni e personaggi, ritengo debba considerarsi un’opera necessaria, sia nell’ambito del cinema in sé, rifuggendo da sensazionalismi o santificazioni nel prediligere appunto ponderatezza e toni tanto intimistici ma anche crudi, diretti, sia nel riportare alla memoria un accadimento del nostro recente passato troppo presto dimenticato (ma è da ricordare un bel documentario del 2020, Il caso Braibanti, di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese), il quale si rivela invece tristemente attuale nell’esternare rammarico e costernazione riguardo il trascorrere invano del tempo (La storia insegna, ma non ha scolari, Antonio Gramsci), considerando l’attualità quotidiana, dove, tra social, media e piazze reali, striscia subdolamente la protervia profusa nel volere rendere minoranza una diversità arricchente ad opera di una maggioranza (auto)proclamatasi tale in forza di una pressante attività prevaricatrice, che si erge sul piedistallo d’argilla di un fallace ideale, volto a celebrare una vacua perfezione assolutistica, dimentica di qualsivoglia umanità.
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