Storia di ragazzi e di ragazze (1989)

Campagne di Porretta Terme, inverno del 1936. All’interno di un cascinale fervono i preparativi per il grande pranzo che, all’indomani, vedrà suggellarsi il fidanzamento fra Silvia (Lucrezia Lante della Rovere) e Angelo (Davide Bechini), giovane rampollo della buona borghesia bolognese. A cominciare dalla madre della ragazza, Maria (Angiola Baggi), incupita per i continui tradimenti del consorte Giulio (Alessandro Haber), parenti e amici sono intenti ad allestire le tradizionali venti portate, ognuno rivelando, per il tramite dei discorsi e delle varie discussioni, le proprie inclinazioni e il proprio carattere, in particolare nel modo di porsi nei riguardi dell’imminente confronto tra i due gruppi familiari. Anche in quel di Bologna, intanto, dove la famiglia di Angelo è riunita intorno al desco, la madre Amelia (Anna Bonaiuto), vedova di un antiquario, è intenta ad esternare al figlio tutte le preoccupazioni per quella futura unione, scaturenti precipuamente dalla profonda differenza sociale, che non esita a rimarcare, ma di cui il ragazzo non sembra tenere minimamente conto. Ad incrementare ulteriormente l’agitazione, in serata ecco arrivare a Porretta Domenico (Felice Andreasi), un anziano rappresentante di occhiali che è solito affittare un locale della tenuta per la villeggiatura estiva, insieme alla famiglia, ma che ora si presenta in compagnia di una giovane donna francese, Valeria (Valeria Bruni Tedeschi), generando imbarazzo e timore per lo scandalo che potrebbe venir fuori, subitamente messi a tacere quando l’uomo rivelerà di essere affetto da una malattia terminale e di come i familiari siano a conoscenza della relazione.

(Wikipedia)

Ecco quindi giungere il giorno fatidico: i due ceppi seduti allo stesso tavolo, tra diffidenza reciproca e tentativi di sciogliere il ghiaccio, mentre si susseguono le portate e scorre del buon vino, fino a quando non andranno a cadere i veli dell’ipocrisia comportamentale, rivelando non pochi screzi e qualche malanimo, il tutto però senza compromettere il rapporto fra i due giovani, che appaiono ambedue convinti della rispettiva scelta e propensi ad intraprendere un comune cammino. Scritto e diretto da Pupi Avati, Storia di ragazzi e di ragazze rappresenta all’interno della filmografia del cineasta bolognese non solo il film cui, come ha spesso dichiarato in molte interviste, è più intimamente legato, ma anche l’ulteriore tocco di cesello a quella svolta, dopo le incursioni degli esordi nell’horror d’atmosfera e nella commedia grottesca, verso un cinema dal sentore autobiografico, dove l’elemento del ricordo assume toni ora elegiaci ora favolistici, incastonati spesso all’interno di “un piccolo mondo antico”, con un’attenta direzione degli attori, protagonisti e non, puntando in particolar modo sul loro rilievo emozionale, così da offrire dimensione opportuna al valore dei sentimenti. Realizzazioni permeate da un profondo senso di umanità, nell’esaltazione del “gusto del racconto per il solo piacere di raccontare” quale leitmotiv dominante.

Lucrezia Lante della Rovere (Cineturismo-Cineteca di Bologna -Copyright PIno Settanni/DUEA FILM ©)

I ricordi della sua infanzia, nel caso del film in esame il fidanzamento dei genitori, vengono come trasmutati all’interno di una sospensione temporale dal sentore quasi magico, alimentata da un vivido flusso mnemonico, volto a coniugare Storia universale e storia particolare, distante, ad esempio, dalle suggestioni oniriche proprie di Federico Fellini. Storia di ragazzi e di ragazze sorprende a tutt’oggi in primo luogo per una mirabile scorrevolezza narrativa, idonea a porre in scena una compiuta coralità: come fa notare Gian Piero Brunetta nell’Enciclopedia del cinema Treccani, considerazione da me pienamente condivisa, è come se Avati si fosse prodigato nell’allestire una ricercata partitura musicale, il cui fluire armonico è costituito dall’incontro di più voci, volte a formare un tutt’uno dal valore spesso simbolico nel raffigurare due nuclei familiari dalla variegata composizione che vivono alimentandosi delle loro stesse contraddizioni, pur se, sia nell’ambito degli agiati proprietari terrieri, sia in quello dei componenti il classico “buon salotto borghese”, sembra comunque prevalere un’apparente unitarietà fondante.

Felice Andreasi e Valeria Bruni Tedeschi (Cineturismo-Cineteca di Bologna -Copyright PIno Settanni/DUEA FILM ©)

Se lo scrittore russo Lev Tolstoj nell’incipit di Anna Karenina (1887) affermava che “Tutte le famiglie felici si somigliano, ogni famiglia infelice è invece infelice a modo suo”, Avati nel breve prologo che precede i titoli di testa sulle suggestive note di Riz Ortolani, sequenza in cui vediamo un artigiano costruire un elefantino d’argilla e poi sottoporlo a cromatura così da sembrare d’argento, materiale che, come ricorda una ridente bimbetta, al pari dell’oro è stato donato da mamma e papà alla patria (“per rispondere alle inique sanzioni”, sottolinea il genitore, ovvero quelle imposte al nostro paese dalla Società delle Nazioni per l’aggressione all’Etiopia), sembra voler suggerire che tanto l’Italia del Ventennio Fascista quanto l’istituzione famiglia, sotto quel rivestimento luccicante e apparentemente nobile possano invece rivelare una consistenza ben più “terrena” e certo distante da suadenti ed ipnotici sfavillii. Le immagini che si susseguono sullo schermo, rimarcate nel loro suadente fascino temporale dalla fotografia di Pasquale Rachini (in un “seppioso” bianco e nero nella versione cinematografica, a colori in quella televisiva), si palesano in guisa di un abbraccio affabulante proprio di un moderno cantastorie, evidenziando nel loro giustapporsi un’attenta caratterizzazione d’ambiente congiunta alla forza espressiva propria di ciascun personaggio: di ogni componente delle due famiglie andremo quindi a conoscere nel corso della narrazione il personale vissuto esistenziale, spesso attraversato da note malinconiche quando non da veri e propri rimpianti, per il tramite dei dialoghi, certo, ma anche, se non soprattutto, attraverso gesti, comportamenti, espressioni.

Pupi Avati (Roma Sette)

Nel lodare l’eccellenza interpretativa dell’intero cast, nell’ottica, riprendendo quanto su scritto, di una concreta coralità, ritengo che, oltre alle bizzarrie del capofamiglia raffigurato da Haber con rustica naturalezza, assuma una certa rilevanza la figura dell’anziano rappresentante delineata felicemente da Andreasi, con quell’aria disillusa ma ancora incline alla speranza di un ultimo refolo di felicità, probabile ponte tra passato e avvenire, al pari di quello sparo accidentale che incorrerà nel corso del pranzo, dopo l’esibizione di un fucile, metaforico segnale delle disgregazioni che da lì a poco andranno ad interessare l’Italia e il suo impianto sociale. Storia di ragazzi e di ragazze, andando a concludere, vincitore del Nastro d’Argento (regia e sceneggiatura) e del David di Donatello (sceneggiatura), probabilmente rappresenta la vetta più alta della poetica avatiana volta alla sublimazione dei propri ricordi giovanili, nella perfetta congiunzione tra levità e profondità, cura formale e resa contenutistica, propenso a farci avvertire determinate sensazioni all’interno di un’atmosfera immersiva nel visualizzare, avallando anche una suadente combinazione tra magia e poesia (i baci inviati alle stelle da Amelia, la caccia all’angelo dei bambini, sicuri di averne avvertito il fruscio delle ali sopra le loro teste), un ritorno al passato per conciliarsi col presente e volgere uno sguardo inedito al futuro.

Pubblicato su Diari di Cineclub N.108, Ottobre 2022


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