“Niente di nuovo sul fronte occidentale”/ “The Whale”, parole in libertà su due film la cui visione mi ha colpito al cuore

Gian Maria Volonté (Sky TG24)

Beh, che ti succede, Ramòn? Ti trema la mano, o forse hai paura? Al cuore, Ramòn, al cuore! Se vuoi uccidere un uomo devi colpirlo al cuore, sono parole tue, no? Al cuore, Ramòn, al cuore, altrimenti non riuscirai a fermarmi…” . Così Joe, “lo straniero”, interpretato da Clint Eastwood, si rivolgeva allo spietato messicano (Gian Maria Volonté), poco prima dell’epilogo del mitico western Per un pugno di dollari, diretto da Sergio Leone nel 1964. Lo scrivente però, che al contrario del granitico bounty killer non può vantare una pur rudimentale corazza di protezione, per quanto m’impegni con una certa costanza al riguardo, ha perso il duello, restando “fulminato all’istante” dalla visione di due film del tutto diversi relativamente agli stilemi rappresentativi, ma che ritengo in buona sostanza simili nel rimarcare determinati valori inerenti ad una pregnante umanità. Valori riconquistati duramente, offrendo in sacrificio la propria stessa esistenza quale espiazione del dolore provocato nei confronti di quanti avuti vicino (The Whale, Darren Aronofsky) o soffocati dai miasmi di un’ assurda condotta belligerante scatenata in guisa di belluino attacco dell’uomo contro se stesso, nel perseguire un fallace e deleterio ideale di egemonia, egoisticamente supportato dal tragico assunto di “sentirsi più eguali degli altri”, sacrificando l’innocenza di giovani individui su tale improvvido altare (Niente di nuovo sul fronte occidentale, Edward Berger, terzo adattamento, ad opera dello stesso regista insieme a Ian Stokell e Lesley Paterson, del romanzo di Erich Maria Remarque, 1928, dopo All Quiet on the Western Front, Lewis Milestone, 1930, e il film televisivo trasmesso dalla CBS nel 1979, diretto da Delbert Mann).

(Movieplayer)

Apro le danze scrivendo per l’appunto di Im Westen nichts Neues, profondamente colpito già dalla sequenza iniziale, l’inquadratura sulla foresta di alberi a rendersi simbolo dell’immane entità che sovrasta tutto e tutti nel rappresentare silente ed immobile la comune disfatta, mentre una volpe nella sua tana è intenta alla cura dei propri cuccioli, quella stessa cura che una nazione dovrebbe riservare al suo popolo, in particolare ai componenti più giovani, anziché instradarli, per il tramite di pomposi e retorici discorsi sull’onore da coltivare e preservare in virtù di eroiche gesta sul campo di battaglia, all’interno di una guerra fratricida, che reclama “ricambi umani” con una certa urgenza. Ecco allora i tanti cadaveri smembrati dalle bombe o crivellati dai proiettili ai margini delle trincee, le cui divise, lavate e rattoppate, saranno destinate a rivestire altri corpi, mandati consapevolmente al macello dopo averli adeguatamente galvanizzati, come quelli degli studenti diciassettenni Paul Bäumer (Felix Kammerer) Albert Kropp (Aaron Hilmer), Franz Müller (Moritz Klaus) e Ludwig Behm (Adrian Grünewald), compagni di scuola. Giunti al fronte, siamo al terzo anno, primavera 1917, dall’inizio del I Conflitto, nel nord della Francia, nei pressi di La Malmaison, dove stringeranno amicizia con Stanislaus Kat Katczinsky (Albrecht Schuch), un commilitone poco più grande di loro, i quattro si renderanno presto conto di cosa rappresenti realmente la guerra, i corpi immersi nel fango quando non nel proprio stesso sangue, la fame, lo sgomento di ritrovarsi di fronte a loro coetanei, “dall’identico umore, ma con la divisa di un altro colore” (La guerra di Piero, Fabrizio De André, 1964).

(Movieplayer)

Le note della colonna sonora (Volker Bertelmann), che stagliano quale leitmotiv alle avvisaglie di ogni assalto un crescendo musicale minaccioso ed insinuante, contribuiscono a dar vita ad una dimensione orrorifica, mentre la fotografia (James Friend) stempera per il tramite delle tonalità “seppiose” quell’omologazione indistinta che va a stagliarsi quale tetra immagine a raffigurare lo scontro tra l’esercito francese e quello tedesco, nel vano tentativo di avanzare sul territorio di pochi metri, per conquistare, ad un prezzo sempre più alto in termini di perdite umane, una striscia di terreno. Grazie anche ad una regia “classicamente” solida nel susseguirsi dei piani sequenza e dei primi piani, che va a creare un legame profondamente immersivo e totalizzante tra ambiente e personaggi, risaltano il lavoro di cesello relativo al montaggio (Sven Budelmann), in particolare nella visualizzazione della tragicità delle battaglie, intervallate una tantum da una quotidianità quasi straniante nella sua “normalità”, alternata alla rappresentazione delle decisioni prese dagli alti vertici nei loro lindi e confortevoli uffici, seduti ad una scrivania, magari preoccupandosi della scarsa freschezza di quanto servito a colazione o di come salvaguardare un assurdo, surreale, concetto di onore, immolando al riguardo quel che resta dei propri uomini in una battaglia da portare a termine entro le poche ore che separano la Germania dall’ “oltraggioso armistizio”.

Felix Kammerer (Movieplayer)

Le scenografie (Christian M. Goldbeck, Ernestine Hipper), i costumi (Lisy Christl), l’effettistica in genere, contribuiscono alla resa della descritta atmosfera “a filo di trincea”, così come risultano piuttosto efficaci le interpretazioni attoriali, in particolare quella profusa da Felix Kammerer nell’interpretare Paul. E’ il suo sguardo a concretizzare soggettivamente ogni orrore e stortura, trasmutando quanto osservato e provato sulla propria pelle in una percezione oggettiva di ribrezzo e paura, per un film certo avvincente nella sua aura figurativa tesa ad illustrare realisticamente crudezza e retorica bellica senza cedere alla vacua spettacolarità e alla facile emozionalità, rendendo protagonista assoluta quella immane barbarie che accomuna vincitori e vinti all’interno di una evidente sconfitta, le fumanti macerie di un’umanità perduta, sulle quali si staglia, nitido ed incontrovertibile, l’agghiacciante silenzio come unica risposta alla domanda “perché?”. Ed ora mi accingo a scrivere del tanto discusso, nel bene e nel male, The Whale, la cui sceneggiatura è un adattamento ad opera di Samuel D. Hunter del suo stesso lavoro teatrale, datato 2012, mentre la regia è di Darren Aronofsky. Presentato, in Concorso, alla 79ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, vede quale interprete principale un sorprendente Brendan Fraser nei panni di Charlie, tormentato insegnante d’inglese con problemi di grave obesità, che vive un volontario esilio all’interno di un bilocale in quel di Mormon County, Idaho, gestendo la sua attività lavorativa attraverso quotidiane lezioni online, mantenendo però rigorosamente spenta la telecamera, adducendo la scusante di un guasto.

(Movieplayer)

La ragione scatenante di tale percorso volto all’annientamento di sé, una sorta di lungo cammino verso il suicidio contrassegnato dall’assunzione di cibo in quantità sempre più smodata e compulsiva, andremo a scoprirla nel corso della narrazione, un percorso a tappe “costretto” visivamente nella cornice del formato 4:3, corrispondente, almeno questa è stata la mia precipua sensazione, alla visione del mondo propria del protagonista, circoscritta e mediata dallo schermo del computer. A far emergere sempre più particolari inerenti al vissuto di Charlie sarà l’ingresso nell’abitazione, buia, opprimente, di varie persone, dal giovane missionario della New Life Church, Thomas (Ty Simpkins), all’amica Liz (Hong Chau), infermiera, che lo conforta e lo assiste, senza dimenticare la più che problematica figlia Ellie (Sadie Sink), studentessa liceale, affidata otto anni or sono alla madre Mary (Samantha Morton), dopo la separazione conseguente al perseguimento da parte di Charlie del suo sogno d’amore con l’allievo Alan, poi morto suicida. Non svelo altro della trama, il cui iter narrativo si snoda nell’incedere di cinque giornate, scandite temporalmente dall’insorgenza e graduale sviluppo nel nostro di una grave insufficienza cardiaca, che non intende sottoporre ad alcun intervento medico o provvedere ad un ricovero ospedaliero, sostenendo l’impossibilità di pagare l’indispensabile assicurazione sanitaria. Intendo invece rimarcare come la visione di The Whale mi abbia profondamente scosso, non tanto, o non solo, per la sempre valida regia di Aronofsky, che riesce ad imprimere ampi e studiati movimenti alla macchina da presa all’interno di un ambiente ristretto, ulteriormente teatralizzato dalle tonalità della fotografia (Matthew Libatique) e dalle note della colonna sonora (Rob Simonsen) nel trasmettere l’urgenza elaborativa di un dolore rappreso, ma in particolare per l’interpretazione intimamente immedesimativa delineata da Fraser.

Sadie Sink (Movieplayer)

“Incapsulato” nel trucco prostetico creato da Rien Morot, l’attore recita, come credo già notato da molti, precipuamente attraverso lo sguardo, limpido e terrorizzato al contempo, foriero di un’aggressiva emozionalità, pur riuscendo comunque ad infondere una sensazione di relativa serenità nell’accettare il proprio status esistenziale, consapevolmente scelto. Charlie riveste i panni di un “alternativo” Capitano Achab (Il Moby Dick di Herman Melville assurge nel corso della narrazione al ruolo di iconico whodunit), intento nella caccia rivolta alla personale balena bianca, ovvero la possibilità di rimediare in extremis ai propri errori, spinto dalla profonda convinzione che non vi siano persone incapaci di amare, fino a trasfigurarsi, simbolicamente, in qualcosa di diverso, di lieve, perché quel peso eccessivo grava sì sul corpo, ma è ancora più incombente sull’anima, aver perseguito egoisticamente un proprio trascinante desiderio, certo legittimo, anche nel considerarne la corresponsione, ma che ha finito per travolgere quanti gli sono stati vicino, i familiari e il soggetto della trascinante passione. Non tutto nel corso della visione mi è sembrato scevro da qualche stridore, in primo luogo la realistica ma a tratti sopra le righe recitazione offerta da Sadie Sink nei panni della figlia “ribelle con un motivo”, idonea a tracciare una linea d’ombra tra reale trasporto affettivo e interesse materiale (il padre le promette una notevole somma di denaro in cambio della sua compagnia), però, andando a concludere, ritengo che The Whale raggiunga lo scopo che credo si fosse prestabilito, ovvero trasmetterci, riprendendo quanto scritto nel corso dell’articolo, il senso dell’urgenza relativa alla riconquista di quell’umanità perduta capace di renderci persone migliori, facendoci emergere dalle secche del materialismo per poi approdare, navigando a vista, nel porto sicuro di un altro mondo possibile.


2 risposte a "“Niente di nuovo sul fronte occidentale”/ “The Whale”, parole in libertà su due film la cui visione mi ha colpito al cuore"

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