Philippe Leroy (Rolling Stone)

Ci ha lasciato l’attore cinematografico francese Philippe Leroy, morto ieri, sabato 1° giugno, a Roma, interprete dal notevole carisma e dalla grande duttilità, dote quest’ultima evidenziata dalla vasta filmografia che, dal suo esordio sul grande schermo nel 1960 (Le trou, Il buco, Jacques Becker) e fino al 2019 (La notte è piccola per noi, Gianfrancesco Lazotti), ha interessato tutti i generi, rivestendo ruoli da protagonista o anche secondari, soprattutto in produzioni italiane. Il fisico longilineo e  prestante, il sorriso spesso ambiguo e beffardo, in sintonia con lo sguardo, la rude affabilità propria dei modi e dei gesti, gli hanno permesso di dare vita a personaggi ora cinici e violenti, ora permeati da una certa albagia, quando non da una ostentata e altera impassibilità. Nato a Parigi nel 1930 da una famiglia aristocratica, Leroy dopo essersi laureato in Scienze Politiche assecondò il suo animo inquieto preferendo l’incerto al certo nell’optare per la carriera militare, che lo portò dapprima in Vietnam e poi in Algeria. Trascorso un periodo di tempo negli  Stati Uniti, Leroy fece infine ritorno nella città natale, adoperandosi in vari mestieri.

(MyMovies)

Nel 1960 il citato debutto cinematografico, dopo tutta una serie di ruoli minori, ne Le trou di Jacques Becker, anche se la svolta decisiva della sua carriera avvenne quando fu costretto a lasciare la Francia per ragioni politiche, trasferendosi in Italia. Qui infatti, una volta conosciuto Vittorio Caprioli, Leroy si avviò definitivamente verso l’ attività attoriale: nel 1961 prese parte a tre film, I briganti italiani di Mario Camerini, Leoni al sole del citato Caprioli, parzialmente ispirato al romanzo Ferito a morte di Raffaele La Capria e Caccia all’uomo di Riccardo Freda, con questi ultimi due titoli a tracciarne le varianti recitative che si porranno agli estremi delle successive caratterizzazioni: il dandy indolentemente altero, il delinquente violento e glaciale o l’uomo senza scrupoli inteso ad assecondare un del tutto personale codice comportamentale (L’occhio selvaggio, Paolo Cavara, 1964), distante da qualsivoglia moralità (Il portiere di notte, Liliana Cavani, 1974, che lo dirigerà anche in Al di là del bene e del male, 1977, e in Interno berlinese, 1985).

(Narni .Le vie del cinema)

Da qui in poi l’attività cinematografica di Leroy proseguirà alternando autorialità (ad esempio Une femme mariée, Jean-Luc Godard, 1964) e l’assecondare tematiche proprie di vari film di genere, come, tra gli altri, 7 uomini d’oro, 1965, un pregevole giallo-rosa diretto da Marco Vicario, che lo vede, nei panni dell’impassibile “Professore” Albert , con a fianco l’ammaliante Giorgia (Rossana Podestà), guidare sei uomini in una rocambolesca impresa, la rapina della riserva aurea di una pregiata banca in quel di Ginevra. Il film ebbe anche un non del tutto riuscito seguito, con lo stesso cast, appena un anno dopo, Il grande colpo dei 7 uomini d’oro. Da rammentare, infine, l’attività profusa sul piccolo schermo, vedi il ruolo da protagonista ne La vita di Leonardo da Vinci, sceneggiato del 1971 in cinque puntate scritto e diretto da Renato Castellani, andato in onda  sull’allora Programma Nazionale (dal 24 ottobre al 21 novembre) ma, soprattutto, ricordo indelebile per quanti, come lo scrivente, erano ragazzini in quegli anni, l’interpretazione di Yanez de Gomera, il “fratellino” del principe e pirata malese Sandokan.

Leroy nei panni di Yanez in Sandokan di Sergio Sollima, 1976 (Electomagazine)

Quest’ultimo era interpretato da un altrettanto carismatico Kabir Bedi, nel celeberrimo sceneggiato diretto da Sergio Sollima, trasmesso dal secondo canale Rai in 6 puntate nel 1976 (dal 6 gennaio all’8 febbraio), tratto dai romanzi di Emilio Salgari Le tigri di Mompracem e I pirati della Malesia.  Addio quindi a un grande interprete, estremamente versatile nel suo accostarsi a ruoli sempre diversi, che gli hanno assicurato una imperitura popolarità.  La sua irrequietezza esistenziale ha certo trovato valido sfogo nell’arte recitativa, mentre alla sua personalità, di uomo ed attore, può probabilmente adattarsi quanto sosteneva il granitico Humphrey Bogart, “La differenza tra la vita e un copione cinematografico è che il copione deve avere un senso”.

Immagine di copertina: Wikipedia

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.

In voga