Italia, anni ’60. Diana (Beatrice Altariba), convivente del marchese Galeazzo di Torrealta (Totò), una volta destatasi da un pesante sonno rinviene il compagno seduto alla scrivania con un pugnale conficcato nel petto, alla cui lama l’assassino ha posto un biglietto recante la propria firma, Diabolicus. Interviene prontamente la Polizia, il commissario (Luigi Pavese) e l’ispettore Scalarini (Mario Castellani); le indagini, dopo gli interrogatori di Diana e della servitù, andranno a concentrarsi, considerando la consistente eredità in gioco, sui fratelli dell’ucciso, il quale aveva già avvisato il notaio della sua intenzione di rendere Diana erede universale: la baronessa Laudomia (Totò), donna focosa ed irreprensibile dama di carità, due matrimoni alle spalle (entrambi i mariti morirono in circostanze misteriose), ora sposata con l’amato Michelino detto Lallo (Raimondo Vianello), il generale della Milizia Scipione (Totò), sansepolcrista nostalgico del Ventennio, l’esimio professore chirurgo Carlo (Totò), ognuno con un alibi di ferro riguardo la sera del delitto, ed infine il pio ed insospettabile Monsignor Antonino (Totò). Qualche giorno dopo, il misterioso Diabolicus tornerà a colpire, architettando un piano per far fuori Laudomia, Scipione e Carlo, inviando a questi ultimi due una lettera anonima per invogliarli a recarsi in casa della prima, mentre un’altra missiva vedrà destinataria la Polizia, cosi da sviare momentaneamente le indagini ed avere campo libero nell’uccidere i tre fratelli nel corso di una partita a biliardo, a colpi di pugnale. Rimasto ormai solo, Monsignor Antonino decide sia giunto il momento di espiare un grave peccato che grava sulla sua famiglia, un sesto fratello, figlio illegittimo, da ripagare dei vari torti subiti negli anni con il lascito dell’intera eredità. Si tratta di tale Pasquale Bonocore (Totò), al momento ospite delle patrie galere quale complice di una rapina, della quale però non ha mai inteso svelare i nominativi degli effettivi autori, visto che lui era un semplice palo; informato dal direttore del carcere della vita che l’attende una volta fuori, non esita a cantare, per cui del tutto libero ora potrà godersi gli agi negati. Diabolicus, però, non tarderà a farsi nuovamente vivo…
Contrariamente a quanto il titolo potrebbe far pensare, Totò diabolicus, diretto da Steno (Stefano Vanzina) e sceneggiato a più mani (Vittorio Metz, Roberto Gianviti, Marcello Fondato, Giovanni Grimaldi, Bruno Corbucci), non è una parodia del noto fumetto nero creato dalle sorelle Angela e Luciana Giussani nel novembre del 1962 per i tipi dell’Astorina, quel Diabolik emulo dichiarato del Fantômas nato nel 1911 dalla fantasia di Marcel Allain e Pierre Souvestre. Venne infatti girato dieci mesi prima, in febbraio, per poi uscire in sala ad aprile, coltivando il proposito di volgere in farsa gli stilemi propri dei generi giallo e noir ispirandosi alla commedia nera britannica Sangue blu, (Kind Hearts and Coronets, 1949, Robert Hamer), adattamento del romanzo Israel Rank di Roy Horniman ed interpretata da un fenomenale Alec Guiness intento a prodigarsi in ben otto ruoli. Probabile poi che il titolo fosse un richiamo al magistrale noir francese I diabolici (Les diaboliques, 1954, Henri-Georges Clouzot), tratto dal romanzo Celle qui n’était plus (1952) di Boileau e Narcejac (pseudonimi rispettivamente di Pierre Boileau e Thomas Narcejac), ma potrebbe essere anche, stando ad alcuni fonti, che si volesse far riferimento ad un episodio di cronaca nera risalente alla sera del 25 febbraio 1958, il cosiddetto “giallo di via Fontanesi”, un giovane operaio che in quel di Torino venne rinvenuto morto nel suo letto, ucciso da una serie di coltellate. L’omicidio veniva rivendicato per il tramite di una lettera anonima scritta a mano, contenente, crittografato, l’indirizzo della vittima (venne individuato da un appassionato di enigmistica), spedita ai giornali e alla questura il martedì mattina e firmata Diabolich. L’omicida ne inviò poi un’altra, nel quale minacciava di seminare terrore ovunque, ma, fortunatamente, i paventati intenti non ebbero alcuna attuazione, anzi del criminale vennero presto perse le tracce.
Verosimile, poi, che nel firmarsi l’assassino abbia attinto dal romanzo Uccidevano di notte, scritto nel 1957 da Bill Skyline (al secolo Italo Fasan), il cui protagonista aveva nome Diabolic, prontamente ristampato un anno dopo dall’editore romano Boselli, sfruttando l’eco del citato evento delittuoso. Tornando al film, Totò diabolicus si sostanzia alla visione come un’opera spassosa: il lavoro congiunto di sceneggiatura e regia si rivela fondamentale nel conferire concreto nerbo ad un impianto narrativo che irride con gusto la trama intricata di un buon giallo, andando a creare un denso senso di mistero, abilmente sotteso sino al finale, pur dando predominanza ad una sapida comicità. Quest’ultima trova la sua apoteosi nelle interpretazioni profuse dal Principe della risata, che si rende portatore di un trascinante fregolismo nel conferire corpo ed anima alle memorabili caratterizzazioni dei sei personaggi, a partire dalla baronessa Laudomia (la voce è di Carlo Croccolo) con la sua indole passionale e la benevolenza rivolta verso quanti esprimano l’accortezza di lasciare questo mondo prima che la vecchiaia li consumi, come i suoi due precedenti mariti, vista con sospetto dal coniuge Lallo (l’ottimo Vianello, che dà vita a degli splendidi duetti con Totò, fra effluvi di Notte cubana e battibecchi vari), il quale d’altronde intrattiene una relazione con donna Fiore (Nadine Sanders), moglie del luminare Carlo. Quest’ultimo, abile chirurgo almeno fino a quando non perde gli occhiali e non si trovi sul tavolo operatorio “un paziente che non ha pazienza” (l’indimenticabile Pietro De Vico), è al centro di una gustosa sequenza giocata sull’improvvisazione ed un gioco di spalla reciproco, nell’alternanza sussultoria di protervia e sottomissione, un incalzante susseguirsi di tartagli, tic vari e nonsense a profusione.
Ecco poi la mitezza ostentata da Monsignore Antonino (doppiato da Renato Turi), la deriva mussoliniana del generale Scipione, geniale macchietta irridente quanti coltivano la nostalgia “dei bei tempi” (per loro, ovviamente), l’alterigia del marchese Galeazzo, che si esprime con un affettato, nonché sprezzante, gergo nobiliare ed infine l’estemporanea napoletanità di Pasquale Bonocore, personaggio che consente a Totò di esternare tutta una serie di calembour a spese del malcapitato interlocutore di turno (come il notaio Cocozza, interpretato da Peppino de Martino), quando non una serie di sevizie, vedi quelle rivolte ad un portalettere (Mimmo Poli) ritenuto Diabolicus travestito, fino a quando i sospetti non cadranno una volta che il poveretto rivelerà di non sapere chi sia il ministro delle telecomunicazioni… Fra gli altri interpreti, da menzionare Luigi Pavese nei panni di un commissario à la Maigret, come credo notato da molti, l’ispettore reso con affabile compostezza da Castellani e lo stesso regista Steno nel ruolo di un giardiniere non particolarmente sveglio (il politicamente corretto era di là da venire). Efficace anche il lavoro sulla fotografia (Enzo Barboni, il futuro regista, tra l’altro, dei due Trinità) e l’indovinato commento sonoro di Piero Piccioni, che contribuiscono entrambi a rimarcare l’atmosfera propria del film, misteriosa e scherzosa al contempo. Totò Diabolicus è un film che si rivede sempre con piacere, foriero di sane risate anche all’ennesimo passaggio televisivo; evidenzia poi quanto un accorto lavoro di scrittura ed una regia ferma ed attenta a valorizzare situazioni ed interpretazioni attoriali possano fare la differenza nel conferire un certo tono ad una messa in scena a volte scombinata, oltre ad offrire opportuna dimensione all’estro attoriale di Totò, esaltandone la capacità espressiva di calarsi con mimetica immedesimazione nei personaggi interpretati ed evidenziandone la duttilità dell’estro comico, incline a molteplici sfumature, non comune e difficilmente ripetibile, atta a sublimare l’arte del sorriso e a donare la consapevolezza del buonumore.