Presentato in Concorso alla 78ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, dove ha conseguito il Premio Speciale della Giuria, Il buco, diretto da Michelangelo Frammartino, anche autore della sceneggiatura insieme a Giovanna Giuliani, arriva sugli schermi cinematografici italiani ad undici anni di distanza dal precedente ed acclamato Le quattro volte (in tale lasso di tempo vi è stata, nel 2013, la presentazione dell’installazione video monocanale Alberi al Dome del Moma PS1 di New York), mantenendo e sviluppando ulteriormente una originalità formale coraggiosa, libera da mode e condizionamenti. La bellezza delle immagini, nella soppesata compostezza delle inquadrature, riesce a dar vita ad una vera e propria poesia visiva, evidenziando, poi, una disarmante semplicità espositiva (dialoghi assenti o avvertibili come brusio sullo sfondo, i versi degli animali o i rumori a fare da colonna sonora), che allo scrivente ricorda i documentari di De Seta o certi film di Bresson. Il punto di partenza per l’obiettivo della macchina da presa sembra essere l’essere umano, per poi spostarsi su quanto gli sta intorno, fino a rendere il soggetto oggetto, riportandoci così all’essenzialità visiva del cinema “puro” delle origini. Viene gradualmente esternato agli spettatori, in cambio di un’ attiva partecipazione, un invito ad andare oltre lo schermo, fino a divenire parte integrante dell’opera, rendendogli palpabile la sensazione di avere recuperato nel corso della visione qualcosa di profondo e dimenticato, il nostro sentore ancestrale più misterioso e appassionante, la riscoperta di un patrimonio temporale che ci lega a doppio filo con la Natura e l’essenzialità delle cose.
Rispetto al citato film precedente, Il buco paga però il pegno, riporto la mia impressione maturata a qualche giorno dalla visione in sala, di un maggiore didascalismo (nel finale in particolar modo, sempre a mio avviso) e, forse, di una minore purezza narrativa, ma resta sempre una realizzazione degna della massima attenzione, capace di suscitare varie sensazioni e riflessioni, per esempio e fra l’altro su cosa debba intendersi propriamente per progresso, se quello volto a raggiungere il verticismo di una innovazione a volte fine a se stessa, non accompagnata, citando Pier Paolo Pasolini, da una concreta evoluzione, o quello inteso a riscoprire la profondità primordiale delle proprie origini e far leva su di esse per andare avanti senza però perdere la propria identità, andando comunque a rappresentare una violazione della “verginità” del territorio, almeno alla luce del pensiero di quanti vedono come fumo negli occhi la, certo necessaria, condivisione della propria cultura, mediando opportunamente fra tradizioni ataviche e spinte moderniste. Frammartino delinea una rappresentazione visiva che fa leva sui contrasti, facendo sì, grazie all’egregio lavoro sulla fotografia ad opera di Renato Berta, che la prospettiva possa adattarsi alle esigenze narrative, ponendo in risalto tutto ciò che abitualmente resta in secondo piano; la narrazione prende il via quindi dalla contrapposizione di due eventi realmente accaduti, nell’ anno 1960: la celebrazione in quel di Milano della costruzione del Grattacielo Pirelli (fino al 1966 l’edificio più alto dell’Unione Europea) e la spedizione in Calabria organizzata da un gruppo di giovani speleologi, nell’entroterra del Pollino, così da esplorare l’ Abisso del Bitunto, tra Cerchiara e San Lorenzo Berlizzi.
Ecco quindi la presentazione, attraverso il montaggio parallelo (Benni Atria), di due realtà, distanti fra loro non solo geograficamente, da una parte un Nord che vede ormai quale dato di fatto la conclamazione del boom economico, dandone concreta esternazione “muscolare” con la costruzione del “Pirellone” e dall’altra un Sud solcato da una profonda ruralità, sorta di riserva indiana fiera di una primordiale diversità, dove il tempo sembra scorrere al ritmo scandito dalla ritualità delle proprie usanze, tanto che l’arrivo della spedizione passa quasi sotto silenzio, apprendendo dalla televisione, offerta dal bar del paese, novello focolare intorno al quale gli abitanti si riuniscono ogni sera, di quel mondo lontano dove si celebra la modernità della nuova costruzione. E così, mentre la squadra inizia ad esaminare l’ingresso della voragine, calcolandone la profondità con metodi empirici e poi calandosi sempre più giù, fino ad arrivare a quasi 700 metri di profondità, un vecchio pastore (Nicola Lanza), il cui volto irruvidito dal sole e dall’avanzare del tempo sembra fare tutt’uno con le montagne circostanti, volge loro uno sguardo distratto, intento a guidare la sua mandria di mucche con particolari richiami, dal sentore vagamente magico.
Nell’alternanza dei campi lunghi in esterno, volti a restituire la distanza percepibile dallo sguardo del mandriano rispetto a quanto lo circonda, permeato da un rispetto sacrale, e delle riprese frontali relative al procedere degli speleologi sempre più giù nelle viscere della Terra, fino a giungere al punto in cui la grotta non consentirà di proseguire oltre, l’incedere narrativo fa sì che possano delinearsi diverse letture interpretative riguardo quanto visualizzato sullo schermo: un suggestivo documentario che invita alla ricerca di una spontanea ruralità perduta, ma anche un racconto meditativo e filosofico sulla nostra smarrita identità e sul nostro fragile equilibrio, rendendo evidente quanto sia necessario per l’essere umano rinvenire una profonda, intensa verità in qualsiasi gesto della quotidiana esistenza, anche il più semplice o banale, per riuscire, finalmente, a darle il vero significato, fino ad ottenere come unica risposta la necessità, non spiegabile razionalmente, dell’eterno fluire dei cicli di nascita e morte, il loro rincorrersi ed intersecarsi, manifestandone cosi la reciproca naturalità. Dovrà, infine, fare sempre e comunque i conti con se stesso e i propri limiti, pur con tutto lo scibile acquisito durante il cammino, all’interno di una Natura che lo comprende e lo sovrasta, nonostante i tentativi di dominarla, ignorandone, colpevolmente, l’originario ed armonico legame paritario.
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I nominativi degli speleologi presenti nel film, a replicare l’esplorazione dell’Abisso del Bitunto: Leonardo Zaccaro; Jacopo Elia; Luca Vinai; Denise Trombin; Mila Costi; Claudia Candusso; Giovanbattista Sauro; Federico Gregoretti; Carlos Josè Crespo; Enrico Troisi; Angelo Spadaro; Paolo Cossi (speleologo disegnatore)
L’ha ripubblicato su Lumière e i suoi fratelli.
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