Ci ha lasciato il regista, ma anche attore, sceneggiatore e critico cinematografico, Peter Bogdanovich, morto ieri, giovedì 6 gennaio, a Los Angeles. Nato a Kingston (stato di New York, Contea di Ulster) nel 1939, Bogdanovich rientra nella generazione dei cosiddetti Movie Brats, per lo più giovani talenti provenienti dal cinema indipendente e nuovi autori formatisi in televisione, che all’inizio degli anni ’70 contribuirono alla nascita del movimento noto come New Hollywood, in virtù del quale si delineava “l’altra faccia dell’America”, rielaborando il linguaggio proprio della controcultura e la mitologia che ne derivava: scomparivamo ottimismo, perfezione, eroismo, sostituiti da dubbio, voglia di fuga, disadattamento e, con il procedere degli anni Settanta, angoscia, paura, sconfitta. Tutti stati d’animo sottolineati cinematograficamente da un’evidente revisione dei generi. Ispirato soprattutto dalla “politica degli autori”, i diritti del regista quale padrone assoluto del linguaggio cinematografico, espressa dalla Nouvelle Vague, la “nuova onda” del cinema francese che prese piede tra la primavera del ’59 e l’autunno del ’63, spazzando via l’accademismo ereditato dagli anni ’30, Bogdanovich attraverso le sue realizzazioni ripropose determinati stilemi rappresentativi, propri del cinema classico hollywoodiano, ormai entrati a far parte dell’immaginario collettivo, per porre in essere una riflessione su quanto questi andavano a raffigurare in confronto con l’ordinaria quotidianità, ponendo l’America di fronte a se stessa e alle problematiche proprie del decadimento dei vecchi miti fondativi, offrendo anche, contemporaneamente, una critica lucida ed amara di quei modelli dai quali egli stesso aveva preso ispirazione.
Un amore per il cinema classico, in particolare verso autori quali Frank Capra, John Ford, Howard Hawks, Orson Welles, scaturente, fin da ragazzino, dalle frequenti visioni cinematografiche, prima d’iscriversi, quindicenne, ai corsi di recitazione tenuti da Stella Adler al Theater Studio di New York ed esordire quattro anni più tardi come regista teatrale, (The Big Knife di Clifford Odets ), per poi dedicarsi alla critica cinematografica. Eccolo dunque scrittore di recensioni e articoli che troveranno spazio su giornali e riviste specializzate, ma anche curatore di rassegne monografiche e pubblicazioni per il Museum of Modern Art di New York, incentrate ambedue su alcuni dei suoi autori prediletti (Cinema of Orson Welles, 1961; Cinema of Howard Hawks, 1962; Cinema of Alfred Hitchcock, 1963). Una volta trasferitosi ad Hollywood, intorno al 1964, iniziò a collaborare con Roger Corman, a sua volta tra gli autori e produttori americani più geniali e versatili, anche lui incline a volgere lo sguardo al cinema degli esordi, colto nella sua primigenia essenzialità visiva suscitante emozione, divertimento o semplice stupore, ma allo stesso tempo propenso ad andare oltre, partendo dalla semplice intuizione di qualsivoglia tendenza ed arrivando alla sua realizzazione pratica, facendo tesoro tanto di valide idee espresse nelle sceneggiatura, quanto degli esigui budget a disposizione, spesso ridicoli se confrontati con quelli delle grandi majors. Dopo una serie di attività in qualità di attore, sceneggiatore e aiuto regista, Bogdanovich diresse il suo primo film nel 1968, Voyage to the Planet of Prehistoric Women, anche se chiese di essere accreditato con lo pseudonimo di Derek Thomas.
La pellicola era il secondo adattamento di Planeta Bur (I sette navigatori dello spazio), sci-fi sovietico del 1962, per la regia di Pavel Klushantsev, tratto dal romanzo di Alexander_Kazantsev, che ne scrisse la sceneggiatura: Corman aveva acquistato i diritti di distribuzione per gli Stati Uniti e ne utilizzò quindi alcune sequenze per girare dapprima Voyage to the Prehistoric Planet (Curtis Harrington, 1965) e poi il sopra citato Voyage to the Planet of Prehistoric Women. Sempre del 1968 è invece Targets (Bersagli), considerato quindi il vero e proprio debutto registico di Bogdanovich, sempre prodotto da Corman, mentre quattro anni dopo fu la volta dell’intenso e struggente The Last Picture Show (L’ultimo spettacolo), tratto dall’omonimo romanzo di Larry McMurtry, autore della sceneggiatura insieme al regista, girato in bianco e nero dietro suggerimento di Orson Welles. Un cast composto da giovani attori (Timothy Bottoms, Jeff Bridges, Cybill Shepherd) per raccontare, siamo nei primi anni Cinquanta, in guisa di metafora, il passaggio dall’adolescenza all’età adulta di un gruppo di ragazzi in quel di Anarene, immaginaria cittadina texana, così come la fine di un certo tipo di cinematografia (The Red River, Howard Hawks, 1948, proiettato nel cinema del paese) e dell’epica che andava a rappresentare, alla vigilia della guerra di Corea e di profondi mutamenti sociali. The Last Picture Show conseguì otto candidature agli Oscar (Miglior Film; Miglior Regia; Miglior Fotografia, Robert Surtees; Miglior Sceneggiatura non Originale; Miglior Attore non Protagonista, Ben Johnson e Jeff Bridges; Miglior Attrice non Protagonista, Cloris Leachman ed Ellen Burstyn) e ottenne due statuette (Johnson e Leachman).
Nel 1972 con What’s Up, Doc? (Ma papà ti manda sola?), Bogdanovich reinterpretò, sempre nella forma dell’omaggio critico, il genere della screwball comedy, rifacendosi in particolar modo allo scatenato Bringing Up Baby di Hawks (Susanna!, 1938), anche se la formula della rivisitazione critica trovò a mio avviso maggiore sostanzialità nel successivo Paper Moon, basato sul romanzo Addie Pray (Joe David Brown, 1971), uno sguardo sull’America sopraffatta dalla Grande Depressione, fra Capra e Ford (The Grapes of Wrath, 1940), in vista delle nuove politiche sociali delineate da Roosevelt. La storia di Moses Pray (Ryan O’Neal), venditore ambulante di Bibbie, e della piccola Addie Loggins (Tatum O’Neal, figlia di Ryan, premiata con l’Oscar come Miglior Attrice Protagonista) che lo accompagna nei suoi giri e raggiri. Nelle realizzazioni successive però, pur nella sempre rimarchevole cura formale, i vari riferimenti cinefili iniziarono a divenire un po’ fini a se stessi: lo si nota già in Daisy Miller (1974) e poi nei successivi At Long Last Love (Finalmente arrivò l’amore, 1975), Nickelodeon (Vecchia America, 1976), mentre il felice tocco originario lo si potrà rinvenire in Saint Jack (1979), They All Laughed (…e tutti risero, 1979), Mask (Dietro la maschera, 1985), tratto dalla vera storia di Roy Lee Denis, il cui volto era stato segnato dalla leontiasi, che valse a Cher il premio per la miglior interpretazione femminile al 38mo Festival di Cannes e in Texasville (1990), che riprese i personaggi di The Last Picture Show adattando l’omonimo romanzo di McMurtry. Da rivalutare lo scoppiettante She’s Funny That Way (Tutto può accadere a Broadway), ultima zampata del vecchio leone, rientrato nell’aurea dimensione di cinefilia costruttiva ed arte della messa in scena, ritrovando il felice equilibrio fra autorialità ed afflato popolare.
L’ha ripubblicato su Lumière e i suoi fratelli.
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