Uno scrittore baciato dal successo, che vive in una lussuosa villa affacciata sul mare, detta alla segretaria attraverso il dittafono un capitolo del suo prossimo romanzo, mentre il cameriere gli porge il cocktail del buon mattino. Il nostro si appresta poi ad una salutare nuotata, cui segue un confortante massaggio, mentre il suo agente lo tormenta con pressanti richieste. Intanto nell’abitazione è entrata di soppiatto tale Joan (Anna Maria Ferrero), sfuggita dalle grinfie del perfido gangster McNally (Pietro De Vico). L’affascinante femme fatale appare propensa a concedersi al romanziere, quando quest’ultimo avverte di essere afferrato da “una forza invincibile”, che, come ogni mattina, puntualmente alle 7.30, lo spinge ad alzarsi e a recarsi in un posto dove vi dovrà restare fino alle 14… e già, quanto finora descritto non è altro che la dimensione onirica al cui interno trova buon albergo Nando Guida (Nino Manfredi), impiegato all’Istituto Romano dei Beni Immobili, influenzato dalla lettura del Giallo Mondadori Morte a Las Vegas, di Jack L. Brown, ricercata evasione da una quotidianità che lo vede vivere con la sorella Lisetta (Anna Campori), amante dell’amico e collega Francesco (Andrea Checchi), vedovo con due figli, oltre a confidare il suo malanimo esistenziale al gatto di casa, Romoletto. Il lavoro in ufficio segue una ormai consolidata routine, fra atavica pigrizia e disincanto pratico: si timbra il cartellino anche per i colleghi assenti, prendendo il loro posto agli sportelli, mettendo in atto per i poveri utenti il classico rimando da un settore all’altro, in particolare per levarsi di torno le pratiche più rognose.
Il direttore (Gianrico Tedeschi) però annuncia l’arrivo dall’efficiente Milano dell’ispettore Jacobetti, esperto in relazioni umane, che si rivelerà essere una donna (Eleonora Rossi Drago), energica e risoluta, seguace delle nuove tendenze già affermatesi in America: via gli storici affreschi e spazio a “tinte motivazionali”, così come a inediti orologi segnatempo, nuovi arredi e test attitudinali. Tutto ciò andrà a creare un certo malcontento, soprattutto in Nando, che accompagna le novità col malcelato sarcasmo che gli è proprio, continuando a confidare nei sogni quali congruo rifugio, ma anche qui la realtà irromperà ben presto e senza chiedere permesso… Diretto da Gianni Puccini, autore della sceneggiatura insieme ad Elio Petri, Tommaso Chiaretti e Nino Manfredi, L’impiegato vede l’esordio di quest’ultimo in qualità di protagonista, offrendo opportuno risalto a stilemi interpretativi propri di un talento particolare, idoneo a portare in scena una recitazione pacata, basata su un umorismo sommesso e controllato, improntata alla sobrietà, al sottotono, con un sagace ricorso alla mimica e alla resa dello sguardo, memore di quanto attori come Keaton e Chaplin avevano dato al cinema muto, accentuando quei toni malinconici propensi ad integrarsi in un’ istintiva carica di simpatia.
La caratterizzazione dialettale è ancora evidente, ma siamo già all’inizio di un percorso che condurrà ad una maggiore dimensionalità attoriale, nella definizione di personaggi dalle notevoli sfaccettature, psicologicamente rimarchevoli, considerando come il suo Nando funga da tramite ad una satira nel complesso piuttosto pungente, rivolta ad un paese formalmente incline ad abbracciare le novità apportate dal boom economico (le inquadrature che si soffermano sul luccichio delle prime insegne pubblicitarie), nell’ambito sociale come del costume in genere, soprattutto le sue elargizioni in veste di sogni a buon mercato (gialli popolari, fotoromanzi, caroselli televisivi), idonei quest’ultimi a mitigare il deflagrante impatto di una realtà sempre più complessa e variegata nel suo incessante trasformismo, spinto anche da un calcolato progresso calato dall’alto: fulgido esempio al riguardo la sequenza in cui si vedono gli impiegati visionare il prospetto del nuovo complesso residenziale loro destinato, con Nando pronto ad esternare il suo disappunto, ironizzando sulla possibile presenza anche di una torretta per le guardie, così da impedire possibili evasioni. Un miglioramento certo necessario ma che non sempre tiene conto delle reali necessità umane, da valutare singolarmente e non standardizzare, in nome di una fredda efficienza, funzionale essenzialmente al puro profitto.
L’espediente narrativo del “sogno compensatore” alla lunga può risultare ripetitivo, ma vi rimedia una congrua fluidità registica e l’ausilio del valido montaggio (Nino Baragli), richiamando in parte quanto visto in The Secret Life of Walter Mitty (Norman Z. McLeod, 1947), primo adattamento dell’omonimo racconto scritto da James Thurber nel 1939, cui seguiranno il nostro Sogni mostruosamente proibiti (Neri Parenti, 1982) e il remake del 2013 ad opera di Ben Stiller. Supportato dal naturale camaleontismo proprio di Manfredi, affiancato da una splendida e brava Anna Maria Ferrero nel dare prova del suo eclettismo, nonché da eccelsi comprimari (Checchi e Campori in particolare), Puccini mette in scena un efficace parallelismo fra il mondo onirico e l’ordinaria quotidianità, rimarcandone ora la reciproca confluenza, ora la concreta mescolanza, fino alla sovrapposizione interscambiabile che porterà alla realtà dell’incontro notturno dell’infingardo impiegato con l’irreprensibile, apparentemente, Jacobetti (Eleonora Rossi Drago in gran spolvero, algida ed elegante), per poi giungere ad un finale che ironicamente lancia una fune fra le due entità, con Nando a chiedersi, rivolgendosi a noi spettatori con sguardo complice, “sogno o son desto?”. Si va così a delineare quale assunto portante della narrazione, in guisa di postilla conclusiva, la necessarietà di un sogno ad occhi aperti per rendere sopportabile quella ritualità impiegatizia inclusiva, fra l’altro, di un risveglio al cardiopalma, una celere vestizione, a volte anche senza neanche togliersi il pigiama, una veloce lavata pro forma ed una altrettanto rapida sorsata di caffè.
Quanto descritto anni più tardi verrà visualizzato con note amaramente sarcastiche e iperbole volte al paradosso da Luciano Salce nel portare sul grande schermo, dopo i precedenti letterari e televisivi, il Fantozzi ragionier Ugo creazione di Paolo Villaggio, nei primi due titoli della serie (Fantozzi, 1975; Il secondo tragico Fantozzi, 1976), mentre ne L’impiegato la bonomia appena velata dal “cinismo pratico” di Nando rende la satira meno incisiva, per quanto sempre efficace. Andando a concludere e riprendendo quanto scritto nel corso dell’articolo, siamo di fronte comunque ad un valido esempio “alternativo” di commedia all’italiana, caratterizzata da un acuto lavoro di scrittura, una regia a suo agio nel delimitare ambienti, situazioni e soprattutto valorizzare ogni singola interpretazione attoriale, per poi, infine, celebrare la vittoria definitiva del buon Nando su qualsivoglia evento concreto gli si vada a parare innanzi, perché se è vero che “Coloro che sognano di giorno sanno molte cose che sfuggono a chi sogna soltanto di notte” (Edgar Allan Poe), lo è altrettanto il constatare come “La verità non sta in un solo sogno ma in molti sogni”. (didascalia iniziale del film Il fiore delle mille e una notte, 1974, scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini, tratta da un passo della famosa raccolta di novelle citata nel titolo).
Pubblicato su Diari di Cineclub N.106- Giugno 2022