Lo scorso 23 luglio ci ha lasciato Bob Rafelson (Robert all’anagrafe, New York, 1933), regista, sceneggiatore e produttore cinematografico la cui indole anticonformista e refrattaria ad ogni possibile etichettatura si è comunque naturalmente inserita nel solco di quel profondo rinnovamento creativo che intorno agli anni ’70 andò a permeare di un’inedita sensibilità la cinematografia americana, traendo ispirazione dalla “politica degli autori”, i diritti del regista quale padrone assoluto del linguaggio cinematografico, espressa dalla Nouvelle Vague, la “nuova onda” del cinema francese che prese piede tra la primavera del ’59 e l’autunno del ’63, spazzando via l’accademismo ereditato dagli anni ’30: è l’affermazione dei cosiddetti Movie Brats, per lo più giovani talenti provenienti dal cinema indipendente e nuovi autori formatisi in televisione (Rafelson conobbe il successo nel 1966 con la serie televisiva The Monkees, da lui scritta, diretta e prodotta insieme a Bert Schneider), che all’inizio degli anni ’70 contribuirono alla nascita del movimento noto come New Hollywood, in virtù del quale si delineava “l’altra faccia dell’America”, rielaborando il linguaggio proprio della controcultura e la mitologia che ne derivava: dubbio, voglia di fuga, disadattamento e, con il procedere degli anni, angoscia, paura, sconfitta, andavano a sostituire ottimismo, perfezione, eroismo, con una marcata revisione dei generi incline a sottolineare cinematograficamente i descritti stati emozionali sullo sfondo dell’ordinaria quotidianità.
Veniva dunque raffigurata un’America incline ad interrogarsi su se stessa, sulle problematiche conseguenti al decadimento dei vecchi miti fondativi, nella frantumazione pressoché definitiva del classico American Dream, squassato nelle sue fondamenta da pressanti inquietudini esistenziali, proprie di quanti intendevano smarcarsi dai consueti ed irreggimentati rituali comportamentali nel tentativo di far sì che la propria più intima essenza possa attingere inedita linfa vitale nel perseguire un del tutto personale diritto alla felicità. Nell’ambito della filmografia di Rafelson ho sempre apprezzato in particolare le sue prime realizzazioni, a partire da Five Easy Pieces, innanzitutto per l’essenzialità della resa visiva e contenutistica e poi per la capacità propria del cineasta di attingere a generi quali il melodramma o il road movie permeandoli però di un’inedita resa profondamente intimista nel delineare il disagio di una determinata classe sociale e mantenendo sempre e comunque, come fa notare Franco La Polla in Sogno e realtà nel cinema di Hollywood (Editrice Il Castoro, 2004), una concreta e significativa ricercatezza figurativa, anche attraverso un “innegabile rinnovamento formale (i ritmi, le immagini, i tempi delle scene, la recitazione stessa)”; il titolo del film in esame allude ad un libro di esercizi musicali per pianoforte destinato ai principianti, che prevede appunto l’esecuzione di cinque brani (opera di autori quali Chopin, Bach, Mozart). Infatti ne è protagonista Robert, Bobby, Dupea, interpretato da un rabbioso, soprattutto nella prima parte, ma non ancora del tutto esagitato, Jack Nicholson, trascorsi da pianista prodigio e un soprannome, Eroica, legato appunto al mondo della musica, così come la sorella Partita (Lois Smith), pianista anch’essa, e il fratello Carl Fidelio (Ralph Waite), violinista.
La sua identità da privilegiato borghese è ora celata sotto le vesti di un rude operaio, lavorante all’interno di un giacimento petrolifero nella contea di Kem, in California, e convivente in una modesta abitazione con Rayette Dipesto (Karen Black, immensa per la naturalità con cui si cala nella resa del personaggio), cameriera aspirante cantante folk, dall’animo semplice e un po’ svanita, cui riserva un misto di protervia e cattiveria gratuita, non disdegnando congiungimenti occasionali con donne conosciute al bowling, dove trascorre le sue serate bevendo birra fino ad ubriacarsi insieme alla citata Rayette, al collega Elton (Billy Green Bush) e alla compagna di quest’ultimo. Disorientato dalla gravidanza di Rayette prima e dall’arresto di Elton poi, Bobby si reca a Los Angeles, dove Partita è impegnata in una seduta di registrazione che ne evidenzia l’incerto talento, apprendendo così come il padre, dopo due ictus, sia ormai silente ed immobilizzato su una sedia a rotelle, per cui decide di far ritorno in famiglia, a Puget Sound, un’isola nei pressi di Washington, portando con sé Rayette ma lasciandola ospite di un vicino motel, un viaggio in auto con qualche variazione, come il passaggio concesso a due autostoppiste “alternative” che intendono raggiungere l’Alaska ed una lite con una cameriera restia ad assecondare le variazioni nell’ordinazione di Bobby. Il reinserimento nel “buon nido borghese” andrà a gettare ulteriore benzina sul fuoco della disillusione del nostro, alimentato da un senso di noia e disgusto per tutto quell’apparato da “famiglia bene americana” mantenuto in piedi da convenzioni e ripetitiva, confortante, ritualità quotidiana, del tutto staccato dalla realtà circostante con la quale non si vuole proprio avere a che fare, vedi l’intellettuale ospite che metterà a disagio la rediviva Rayette con i suoi discorsi pomposi e gonfi di alterigia, fino all’intervento di Bobby, ormai pronto a lasciare nuovamente tutto e tutti, dopo una fugace liason con la fidanzata del fratello, Catherine (Susan Anspach).
Quest’ultima gli rinfaccerà l’impossibilità di esternare amore in quanto incapace di voler bene primariamente a se stesso, ed un chiarimento in forma di monologo col genitore, al quale esternerà la motivazione del suo essere in costante movimento, dovuto non al cercare veramente qualcosa, ma al voler prendere le distanze da situazioni che potrebbero divenire difficili ove restasse, “principi promettenti”, probabilmente forieri di un impegno omologante, generante ulteriore insoddisfazione. E così, durante una sosta ad una stazione di servizio, Bobby abbandonerà Rayette ed otterrà un passaggio da un camionista diretto verso nord, di nuovo alla ricerca di un qualcosa che possa conferire un determinato significato alla sua esistenza ma anche non dargliene alcuno… Rafelson, autore anche della sceneggiatura insieme a Carole Eastman (accreditata con lo pseudonimo di Adrien Joyce) interiorizza la tematica del viaggio attraverso connotazioni introspettive che vedono il protagonista spostarsi continuamente, scosso da insoddisfazione o insofferenza, sensazioni che non solo perdureranno nel far ritorno in quella casa dove ha vissuto la propria infanzia e la propria giovinezza, ma, riprendendo quanto scritto nel corso dell’articolo, andranno anche ad alimentarsi ulteriormente nell’andare a confrontarsi con i familiari e soprattutto con Catherine, la quale tenterà invano di scuoterlo ponendolo criticamente di fronte al suo ripiegamento emotivo, pur non riuscendo ad offrirgli altra alternativa che il vacuo perseguimento di quegli agi garantiti dalla classe sociale di appartenenza, la loro perpetua reiterazione nella strenua difesa di un hortus conclusus a garanzia di qualsivoglia intromissione esterna, mentre Bobby farà ancora una volta leva sulla propria individualità pur di compensare il senso di disagio e di vuoto annichilente.
La maestria espressa al pianoforte si risolve oramai, eseguendo un brano su richiesta della citata Catherine, in un virtuosismo solipsistico, mentre sulle sue note la macchina da presa gira intorno la stanza, indugiando brevemente su particolari quali le fotografie della famiglia riunita o dei singoli membri, ritratti in determinati momenti della loro vita, quanto basta a rendere l’idea di una classe sociale ripiegata su stessa, che alimenta il perdurare della propria esistenza su vacui ricordi e preservando una presunzione di superiorità legata per lo più alla materialità propria della sicumera economica. Non a caso il genitore, rappresentante di valori ormai in rapida decomposizione, è figura silente e non può far altro che osservare il decadimento offerto dai propri rampolli o ascoltarne, nella bellissima sequenza del confronto con Eroica, il redde rationem relativo a quel consapevole disadattamento che rende il proprio figlio incapace di trovare una satisfattiva ragione di vita tanto al di fuori della cerchia sociale d’appartenenza, che nella prima parte del film, Rafelson, giocando soprattutto sui primi piani e sulla recitazione d’impatto offerta da Nicholson, rende con lucidità, rimarcando un frenetico nervosismo, quanto all’interno dei ritrovati conforti borghesi, dove invece la narrazione si fa più statica, evidenziando lo stanco trascinarsi di quella ripetitività giornaliera relativa a gesti, situazioni, atteggiamenti, attitudini artistiche felicemente espresse o interpretate come tali, avvolta da un torpore dal sentore necrotico.
Unica soluzione, sempre e comunque, la fuga perpetrata attraverso la conclamazione di un individualismo estremo, una sorta di “solo contro tutto e contro tutti”, un nuovo viaggio, ora verso il freddo nord, che potrà condurre ad una nuova vita come rivelarsi un appuntamento meno effimero in quella regione di perenne certezza, citando e adattando alla bisogna un estratto dal Capitolo VI de Il Gattopardo (Giuseppe Tomasi di Lampedusa, 1958, Feltrinelli). Five Easy Pieces conseguì, fra altri riconoscimenti, quattro candidature ai Premi Oscar: Miglior film (Bob Rafelson e Richard Wechsler), Miglior attore protagonista (Jack Nicholson), Miglior attrice non protagonista (Karen Black), Migliore sceneggiatura originale (Bob Rafelson e Carole Eastman).
L’ha ripubblicato su Lumière e i suoi fratelli.
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