La scorsa domenica, 18 dicembre, ci ha lasciato Lando Buzzanca (Gerlando all’anagrafe, Palermo, 1935), attore dalla carismatica fisicità, sguardo puntuto, sorriso tra l’ammaliante e il beffardo, a sostenere uno stile recitativo piuttosto naturale, tutte doti che trovarono la loro compiuta esaltazione soprattutto nei ruoli da caratterista (Divorzio all’italiana, 1961, Sedotta e abbandonata, 1964, entrambi diretti da Pietro Germi, La parmigiana, 1963, Antonio Pietrangeli), mentre discontinua fu la resa in quelli che lo videro protagonista, con qualche felice eccezione (ad esempio Don Giovanni in Sicilia, 1967, Alberto Lattuada, I Vicerè, 2007, Roberto Faenza, tratto dall’omonimo romanzo di Federico De Roberto, 1894), senza dimenticare lavori televisivi quali, fra gli altri, il varietà Signore e Signora, in coppia con Delia Scala, per la regia di Eros Macchi (7 puntate sull’allora Programma Nazionale della RAI, 10 gennaio-7 marzo 1970) o la serie Il restauratore (due stagioni, 2012 e 2014, Rai 1). Prevalevano infatti toni ora esasperatamente grotteschi, ora manieristicamente stereotipati, ritraenti la figura propria di Vichingo venuto dal sud (titolo di un film del 1971 diretto da Steno, che verrà ridistribuito col titolo Il magnifico mandrillo), miccia della sessualità sempre accesa e prossima a deflagrare o, a volte, dalla fiamma improvvisamente smorzata, fra prurigine di provincia ed inedite costumanze intese a farsene beffe.
Realizzazioni ridanciane, comunque spesso riflettenti, pur se con qualche grossolanità, la quotidianità del tempo e generalmente mai scadenti nel pecoreccio più becero o nella volgarità fine a se stessa, distanziandosi in certo qual modo, almeno ad avviso dello scrivente, dalla vera e propria commedia sexy che vedrà, a partire dagli anni ’70, con qualche rigurgito nella prima parte degli ’80, il grande schermo popolarsi di provocanti insegnanti, supplenti discinte, dottoresse alle grandi manovre e Pierini contro tutti. Anziché dilungarmi sulla sua filmografia, piuttosto vasta e dai titoli più disparati, dall’esordio come comparsa nel Ben Hur di Wyler, 1959, dopo aver svolto vari mestieri e frequentato i corsi di recitazione dell’Accademia Sharof a Roma, alla parodia dell’agente segreto 007 (James Tont Operazione U.N.O., Bruno Corbucci e Giovanni Grimaldi, 1965; James Tont Operazione D.U.E. , ancora Corbucci, 1966), passando per pellicole che gli diedero la grande notorietà (Il merlo maschio, 1971, Pasquale Festa Campanile, tratto da un racconto di Luciano Bianciardi), ho preferito soffermarmi sul citato Don Giovanni in Sicilia, diretto da Alberto Lattuada, anche autore della sceneggiatura insieme a Giorgio Salvioni, Attilio Riccio e Sabatino Ciuffini, libero adattamento dell’omonimo romanzo di Vitaliano Brancati, datato 1940. L’incedere temporale viene spostato dall’Italia fascista a quella di fine anni ’60, boom economico ormai consolidato, congiuntamente a profondi mutamenti nell’ambito della morale comune e della società in genere.
Trattasi di una realizzazione per certi versi minore tra quelle del cineasta lombardo, considerando come possa avvertirsi la mancanza di una concreta incisività, ma ritengo ne rimarchi l’indubbia ecletticità, intesa in tal caso ad assecondare sia la propensione per l’adattamento letterario, sia i toni propri della commedia di costume, in totale adesione alla volontà, propria della sua filmografia, di conferire una forma concreta all’idea di un cinema che fosse colto ma popolare al contempo, sfruttando con gusto ed eleganza formale i generi ma anche le narrazioni della tradizione italiana, confermandosi in definitiva un osservatore lucido e anticipatore delle grandi trasformazioni collettive del secondo Novecento. Fa poi piacere rinvenire un Buzzanca piuttosto misurato nel tratteggiare con sagacia ed immedesimazione la psicologia del personaggio, l’infingardo ed ozioso avvocato Giovanni Percolla, 36 anni, scapolo, lavorante nello studio legale dello zio in quel di Catania, città dove vive, insieme alle sue tre sorelle Rosa, Barbara e Lucia, nubili, e alla domestica Filomena, che lo coccolano e ne assecondano l’adagiarsi ad oltranza nella placenta protettiva tipica della provincia, coltivando con profonda dedizione abitudini quali la pennichella subito dopo aver mangiato e il rituale dell’incontro con gli amici di vecchia data, Scannapieco (Carletto Sposito) e Muscarà (Pino Ferrara). Insieme favoleggiano di incontri galanti e grandi conquiste, ritrovandosi poi in solitaria a gingillarsi con i paginoni centrali della rivista Playboy o a sindacare sulla bontà realistica di una pregiata bambola gonfiabile, alta tecnologia giapponese, insieme ad altri notabili del posto, oppure a frequentare prostitute, senza però mai arrivare a conoscere l’amore vero: “Dobbiamo dirlo chiaramente? Giovanni Percolla, a trentasei anni, non aveva baciato una signorina per bene… Non aveva scritto né ricevuto una lettera d’amore, e il ricevitore del telefono non gli aveva mai accarezzato l’orecchio con le parole amor mio…” (estratto dal terzo capitolo del romanzo).
Infatti, quando i tre vitelloni si daranno all’arrembaggio nei riguardi di alcune fanciulle svedesi in arrivo all’aeroporto, il nostro resterà irretito ed inebetito da una affascinante donna, ritenuta una facile conquista in virtù delle sue arti seduttive, che si rivelerà essere invece la marchesina Ninetta Marconella (Katia Moguy), di ritorno da un collegio svizzero, quanto mai disinvolta ed emancipata. Spiazzando Giovanni in più di un’occasione, in particolare una volta che questi si troverà coinvolto sentimentalmente, sarà lei a condurlo all’altare e poi a convincerlo a trasferirsi nell’operosa Milano, dove inizialmente subirà il drastico cambiamento delle inveterate abitudini (sveglia di buon mattino e rinuncia al riposino postprandiale, docce gelate e pranzi leggeri), per poi integrarsi perfettamente nella frenetica quotidianità meneghina, tra brillanti intuizioni produttive all’interno dell’azienda in cui ha rinvenuto impiego e frequentazioni altolocate, anche se la sua identità, in particolare a livello sessuale, ne risulterà compromessa, finché…Rispetto al romanzo di Brancati, Don Giovanni in Sicilia appare permeato di un umorismo meno amaro e tragico, che nella pagina scritta andava a creare un caustico parallelismo tra la vacuità ideologica del Fascismo e quella propria del gallismo siciliano, mito quest’ultimo che si ergeva anch’esso su fanfaronate ed epiche imprese, più narrate o vagheggiate per il tramite della fantasia o dell’incedere onirico che realmente vissute, mentre in pellicola il becero ed infantile maschilismo che vede la donna quale semplice corpo da possedere in nome di un rapido sfogo sensoriale ad esaltazione della propria virilità, viene messo soprattutto a confronto con una realistica emancipazione, nonché autodeterminazione, femminile, volta a non lasciarsi sopraffare da imposizioni ataviche e pretese di dominio assoluto.
Ne conserva comunque un impianto narrativo che può suddividersi in due parti ben distinte, per poi rinvenire un trait d’union conclusivo: quella relativa all’ambientazione catanese, cui Lattuada sembra però riversare una caratterizzazione poco sferzante rispetto a quanto delineato da Brancati, prediligendo la classica pacca sulla spalla o un buffetto sulla guancia autoassolutorio nell’assecondare, per certi versi, quanto espresso dalla realtà isolana, con una forte identificazione ambiente-personaggi, e l’altra relativa allo scenario metropolitano, dove i toni si fanno invece più graffianti e satirici e tutto appare, anche figurativamente, astratto ed oscuro al contempo (“Ma cosa c’è, l’eclissi?”, è il commento di Giovanni nell’uscire di casa per recarsi al lavoro), ed ogni azione umana è volta essenzialmente alla mera e spersonalizzante produttività, con il danaro a rendersi congruo livellatore sociale (vedi, per esempio, la sequenza della compera di un oggetto d’arte ad un asta).
Differente poi rispetto al libro, quest’ultimo sempre e comunque più incisivo, in particolare riguardo la caratterizzazione dei personaggi secondari e la definizione di molte situazioni e accadimenti, il finale: se nella pagina scritta Giovanni, tornato in Sicilia insieme alla moglie, in attesa di un bambino, ritiratosi dopo un lauto pranzo nella sua vecchia camera, una volta sotto le coltri ritrovava l’essenza di quella sicilianità che gli era propria, lasciarsi andare al flusso della vita senza tanti pensieri, coltivando l’illusione del sogno rispetto alla concretezza del reale, ora trasmutato alla dimensione a lui più ideale, sullo schermo condivide invece la ritrovata armonia con Ninetta, “Milano può aspettare…”, caldeggiando così la vittoria di una sorta di determinismo naturista rispetto al profitto fine a se stesso, ovvero volto ad assicurare ulteriori introiti, rendendo il progresso orfano di una realistica evoluzione. Non l’opera migliore di Lattuada, riprendendo quanto scritto nel corso dell’articolo, ma comunque da rivalutare o tenere in considerazione per l’acuta disamina sociale e l’interpretazione di Buzzanca, che verrà ripresa con toni più esasperati e deformanti, fino alla sua “istituzionalizzazione”, in varie commedie incentrate sulla raffigurazione del “masculu verace”. Per un ulteriore e sempre proficuo confronto libro-film, da riscoprire (credo sia disponibile su RaiPlay) anche lo sceneggiato di mamma RAI del 1977, diretto da Guglielmo Morandi su adattamento, sostanzialmente fedele, di Giuseppe Cassieri, protagonista Domenico Modugno, affiancato, fra gli altri, da Rosanna Schiaffino e Leopoldo Trieste (Rete 1, tre puntate, dal 2 al 16 gennaio 1977). (Rielaborazione ed approfondimento del testo adoperato per la trasmissione Sunset Boulevard su Radio Gamma Gioiosa del 20/12/2022)
L’ha ripubblicato su Lumière e i suoi fratelli.
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