Scritto, insieme a Patrick McHale, e diretto, con l’ausilio di Mark Gustafson, da Guillermo del Toro, questa nuova trasposizione cinematografica del romanzo di Carlo Lorenzini in arte Collodi (Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, 1881-1883) si distacca con decisione dall’opera originaria, pur mantenendone il nitido senso immaginifico da “bella fiaba”, dando vita ad un film d’animazione, in stop-motion, intenso e pulsante di vivida umanità, del tutto permeato della poetica propria del cineasta messicano, dall’emarginazione del freak intento a ricercare il suo posto nel mondo, preservando fermamente la propria specificità nell’ergersi contro ogni conformismo o perbenismo di facciata, al dileggio mutuato al grottesco rivolto al potere dittatorialmente costituito, alle sue rigide, uniformanti, imposizioni comportamentali. Va quindi a costituire, per stessa ammissione dell’autore, una trilogia iniziata con El espinazo del diablo (2001) e proseguita con El laberinto del fauno (2006), nella cui narrazione si prendeva di mira il franchismo spagnolo, mentre ora tocca al fascismo mussoliniano, essenzializzato nel noto motto Credere, obbedire, combattere. Evidente, poi, come la narrazione sia attraversata da una certa spiritualità, fino a far avvertire, credo sia stato già notato da molti, un parallelismo fra la figura di Yehoshua ben Yosef (ovvero Gesù) e quella del burattino di legno (tecnicamente sarebbe una marionetta, giusto per fare i sofistici), dall’estremo sacrificio salvifico alla resurrezione.
Pinocchio va incontro alla dipartita terrena ogni qualvolta mortifica, o subisce mortificazione, la propria identità, nella difficoltà di condividerla, per poi infine essere restituito definitivamente alla vita umana, sempre mantenendo l’aspetto ligneo, una volta che non solo avrà accettato se stesso, suffragando una individualità diversificante, ma anche quando avrà compreso come conciliare quest’ultima col rispetto del proprio prossimo, ovvero tutti coloro ai quali rivolgere nel corso del rituale incedere quotidiano le stesse accortezze comportamentali che si vorrebbero vedere eseguite nei propri confronti. L’interessante e pregnante lavoro di scrittura, che asseconda una coerente circolarità, include un lungo prologo, che prende il via nel 1916, quando l’anziano falegname Geppetto, vedovo, viveva in un paesino italiano, insieme al figlio Carlo, dieci anni, come racconta Sebastian J. Cricket, un grillo aspirante scrittore. Purtroppo, era in corso la Grande Guerra, un bombardamento si portò via quel ragazzino obbediente e curioso nei confronti del mondo, lasciando il padre sconvolto dal dolore, “ormai lavorava molto poco e mangiava ancora meno”, fino a cercare conforto nell’alcool.
Uno strazio tuttora presente, a distanza di dieci anni dal triste evento, tanto che una notte, al colmo della disperazione e reso rabbioso dall’ennesimo ricorso alla bottiglia, Geppetto butta giù a colpi d’ascia il pino adiacente alla tomba di Carlo, nato da una pigna raccolta da quest’ultimo, mettendosi all’opera per costruire con quel legno un simulacro del figliolo tanto amato, un burattino grezzo d’aspetto ed incompleto in più di un particolare, riservandosi di completarlo all’indomani, smaltita la sbornia. Intanto, mentre l’uomo è ormai addormentato, nel buio della casa appare una creatura fatata, che si presenta al grillo quale guardiana “che si prende cura delle piccole cose, le cose dimenticate”, materializzazione di quegli spiriti antichi vaganti nei boschi “che di tanto in tanto si intromettono nelle azioni umane”. E’ intenzionata a conferire essenza vitale alla creatura di Geppetto, dandogli nome Pinocchio, “così da portare gioia e compagnia a quel povero uomo dal cuore spezzato”, eleggendo Sebastian, che all’interno dell’albero abbattuto aveva preso dimora, quale suo “cuore” ufficiale. Il mattino dopo, di fronte all’allibito Geppetto, l’informe pupazzo dà prova di una incontenibile voglia di conoscenza, ai suoi occhi tutto è nuovo e occorre appurarne la consistenza, facendosi poi notare dai paesani, pronti a gridare alla stregoneria, e dall’autorità ecclesiastica e civile.
In particolare il podestà, padre del ligio Lucignolo, ne impone la frequentazione scolastica e poi magari di un corso d’addestramento, così da ammorbidire e piegare alla causa del partito quella mente ai suoi occhi pericolosa, propria di una birba matricolata, non avvezza alla mera obbedienza. Ma lo scatenato legnoso bimbetto si farà presto irretire dal Conte Volpe, impresario circense senza scrupoli, che ha come sgherro fidato il babbuino Spazzatura. Da costui Pinocchio si sente compreso e accettato, la sua natura trova congruo sfogo, mentre per il padre sembra non essere altro che un pesante fardello, dando così vita a tutta una serie di tumultuosi accadimenti… Ormai da un po’ di tempo, almeno nell’ambito di quanto proposto dalla consueta distribuzione, non succedeva che un film di animazione, per di più tratto da uno dei miei libri del cuore, non mi coinvolgesse, emozionasse ed entusiasmasse rendendomi appagato tanto visivamente che contenutisticamente. Sono rimasto infatti conquistato sin dal primo fotogramma dalla tecnica impiegata, non solo, o non tanto, volta alla mirabilia sic et simpliciter; la stop-motion mi è parsa infatti incline ad assecondare e visualizzare quella che ho sempre ritenuto la magia primaria del cinema, rinvenire un trait d’union fra un concreto, tattile, senso realistico (eccellenti le scenografie rese da Guy Davis e Curt Enderle, così come la fotografia di Frank Passingham ad assecondare tonalità fosche e ombre espressioniste, vedi la creazione del burattino) e l’evidenza del “trucco”, andando quindi ad instaurare un complice gioco affabulatorio con gli spettatori.
Nell’intreccio funzionale di vari generi, vi è poi spazio anche per numeri da “vecchio musical”, ovvero l’esecuzione di canzoni (la colonna sonora di Alexandre Desplat non è forse memorabile, ma comunque funzionale al narrato) che non vanno a costituire una estensione esplicativa dei dialoghi, bensì una connotazione emotiva a determinate situazioni che si andranno a creare nel corso della narrazione. A parere di chi scrive la felice intuizione di del Toro è rinvenibile proprio nello smarcarsi, la dichiarazione d’intenti d’altronde è già espressa nel titolo, dal testo originario, appropriandosi del narrato collodiano e trasmutandolo, riprendendo quanto scritto nel corso dell’articolo, in funzione della propria poetica di stile, richiamando nella caratterizzazione visiva dei personaggi, di Pinocchio in particolare, i tratti delineati da Gris Grimly. Ho trovato piuttosto suggestivo anche il pulsante parallelismo fra vita e morte, due entità sorelle, l’una complementare all’altra: la prima andrà ad estinguersi anche ove non cessi il battito animistico, una volta che ci si è arresi al grigio rituale uniformante imposto da un regime totalitario già dalla giovinezza, cui si associa l’obbedienza servile nei confronti dei genitori che pretendono di forgiare la prole a propria immagine e somiglianza (rimarchevole al riguardo l’inedita caratterizzazione di Lucignolo), noncuranti delle potenzialità espressive e caratteriali, lunghi fili che tengono legati ad un valore imposto verso il quale manovrarli opportunamente per i propri fini, non vedendo certo di buon occhio quanti di quei fili si fanno beffa, optando, in nome di una sana autodeterminazione, per un personale apprendimento di cosa sia giusto o sbagliato.
Splendida a tale ultimo riguardo la sequenza in cui Pinocchio sbeffeggia Mussolini, intervenuto in pompa magna ad uno spettacolo, appellandolo come “sua escremenza”. Pinocchio nella visione di del Toro è sostanzialmente un puro di cuore, nel senso evangelico del termine, l’essere umano capace di rimanere sostanzialmente se stesso in virtù di un approccio candido e spontaneo all’incedere esistenziale, coltivando quella meraviglia appartenente al bimbo che osserva il mondo per la prima volta, una risorsa interiore cui attingere per far fronte alle inevitabili difficoltà quale necessario percorso di crescita, ma anche rivolta alla compartecipazione, così da offrire un precipuo senso al cammino terreno nei riguardi di quanti gli gravitano attorno. Ecco allora che la fama paventata dal mefistofelico Barone Volpe (sostituto di Mangiafoco e Gatto insieme) andrà a sostanziarsi come un attentato illusorio, una tentazione cui si cede morendo nell’animo, ma resuscitando e andando incontro alla vita vera una volta individuata la propria essenza di spirito libero, contornandola di una vivida umanità, così da anteporla, ove necessario, alla salvaguardia del benessere altrui. Il tutto racchiuso nella crisalide di una fisicità “diversa”, un po’ come la Creatura del Dr. Frankenstein, uomo sensibile la cui “mostruosità” viene chiamata fuori dalla stolidità di chi vede nella sbandierata “normalità” la panacea di ogni male.
Un’opera geniale, andando a concludere, “sovversiva” per certi versi nel suo essere libera dalle pastoie di un calcolato apprezzamento generalizzato e dominata invece da concreti, avvolgenti, slanci fantastici (ad esempio il regno dell’oltretomba con i terrificanti conigli neri e la fila di bare, ma soprattutto la duplice resa visiva di vita e morte, l’una in aspetto di chimera, l’altra di inquietante sfinge), che muta certo la morale di Collodi ma rispetta comunque, almeno a mio avviso, l’unicità vitalistica tipica del personaggio di Pinocchio, che dopo tante “rinascite” comprenderà come la vita vada accettata nella sua totalità, rendendosi artefici giornalmente del significato da conferirle, dopotutto, come dice il buon vecchio grillo, “quel che accade accade e a quel punto non ci siamo più”. In chiusura, ecco le voci originali dei principali personaggi:Gregory Mann (Pinocchio, Carlo). Ewan McGregor (Sebastian il Grillo). David Bradley (Geppetto). Ron Perlman (podestà). Tilda Swinton (Spirito del Bosco, Morte).Christoph Waltz (Conte Volpe). Cate Blanchett (Spazzatura). Tim Blake Nelson (conigli neri).Finn Wolfhard (Lucignolo). John Turturro (dottore). Burn Gorman (prete). Tom Kenny (Benito Mussolini).
L’ha ripubblicato su Lumière e i suoi fratelli.
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