Il cinema piange per la scomparsa di uno dei suoi autori più eclettici, poetici e visionari, Ermanno Olmi (Treviglio, 1931), deceduto nella notte di ieri, domenica 6 maggio, ad Asiago. Regista, cinematografo e teatrale, oltre che sceneggiatore, scevro da schemi o ideologie, consapevole dei propri mezzi espressivi, sin dagli esordi si è lasciato andare a libertà stilistiche e narrative mai fini a se stesse, reinventandosi, in seguito, nel suo personale cammino autoriale, così da affermarsi quale cantore di un cinema ancora capace di nutrirsi del racconto storico, dell’allegoria fiabesca, di atavici ricordi. Il tutto arricchito da un tocco elegiaco nel descrivere uomini semplici alle prese con la rituale quotidianità e gli accadimenti in cui si trovano coinvolti, ponendo risalto ad una esemplare minuziosità antropologica (come ne L’albero degli zoccoli, 1978, probabilmente il suo capolavoro, girato in dialetto bergamasco, che vinse la Palma d’Oro al 31mo Festival di Cannes). Trasferitosi a Milano negli anni ’50, frequentò i corsi di recitazione dell’Accademia d’Arte Drammatica, trovando poi impiego presso la società Edisonvolta, occupandosi delle attività ricreative aziendali; gli venne proposto di girare per la società un documentario (La diga sul ghiaccio, 1953), dando il via così ad un’intensa attività di documentarista industriale, che gli permise di affinare le sue conoscenze tecniche, passando al lungometraggio ancora avvalendosi del genere documentario, pur declinato in film (Il tempo si è fermato, 1960).
Il vero e proprio debutto cinematografico di Olmi avvenne nel 1961 con Il posto, scrivendone soggetto e sceneggiatura, girato con attori non professionisti ed utilizzando ambienti veri, non ricostruiti in studio, delineando così l’immagine a lui cara dell’uomo, l’essere umano, alle prese con determinate problematiche all’interno di uno spazio che lui stesso ha messo in piedi, al di fuori cioè di quella Natura che tutto comprende in sé. Il giovane Domenico (Sandro Panseri), primogenito di una modesta famiglia (padre operaio, madre casalinga), vive a Meda, nella provincia milanese; si reca in città, in pieno boom economico, per partecipare ad una selezione di lavoro all’interno di una grande azienda; nel corso delle prove cui è sottoposto con gli altri candidati, conosce Antonietta (Loredana Detto) e fra i due nasce una certa intesa.
Vengono assunti entrambi, ma assegnati a sedi diverse, Antonietta come dattilografa e Domenico come aiuto usciere, in attesa che si liberi un posto d’impiegato; si perderanno di vista, sino ad un incontro fortuito, quando la ragazza lo invita alla festa di Capodanno organizzata dal circolo aziendale: il ragazzo vi si reca, ma nello squallore di un divertimento forzato ed organizzato, ha la delusione di non incontrarla; la morte di un impiegato rende libera l’agognata scrivania, mentre il rumore del ciclostile fa da colonna sonora sui titoli di coda, amaro simbolo di tutta l’alienazione offerta dal sistema…
Opera insolita per il periodo di realizzazione, Il posto attinge parzialmente agli stilemi propri del nostro Neorealismo oltre che a quelli tipici del documentario: un ricorso evidente soprattutto nella prima parte, descrittiva fin nei minimi dettagli della vita quotidiana dei protagonisti, certo memore della “poetica del pedinamento” cara a Cesare Zavattini; Olmi mette in scena una delicata, poetica, analisi sociologica, sia del percorso individuale proprio del protagonista, giovane ancora ingenuo che prende contatto con una realtà, sociale e lavorativa, a lui estranea, sia di quello collettivo, visualizzando una società d’impronta contadina che avanza verso la nuova realtà industriale, con il proletariato incline a divenire piccola borghesia.
Un agognato salto di classe sottolineato da Olmi tanto con un’attenta caratterizzazione psicologica dei protagonisti, quanto rimarcando visivamente situazioni ed ambienti (la cascina in cui vive Domenico non è altro che una sorta di posto letto, ha perso ormai la sua funzionalità agricola di un tempo).
Mano a mano mano che entriamo nella realtà aziendale, sospesa tra vuoto ed insoddisfazione, la descrizione dei test attitudinali, i brevi squarci illuminanti sulla vita privata degli impiegati rendono i toni, pur mantenendosi all’interno di una cornice realistica, sempre più surreali e grotteschi, pervasi da una sottile e amara ironia, trovando la loro apoteosi, dolente e in qualche modo beffarda, nella visualizzazione della festa di Fine Anno. Mantenendo la sobrietà quale primaria cifra stilistica, unita a sensibilità e sottile introspezione, Il posto conserva a tutt’oggi un fascino attuale, idoneo a a farci riflettere su quanta individualità, spinta autodeterminatrice e concretezza di aspirazione possano essere sacrificate sull’altare di un presunto progresso e di una spesso artificiosa modernità, lungi da una concreta evoluzione, rendendoci quindi orfani della nostra primigenia essenza di esseri umani in quanto tali, ovvero l’altro da sé più intimo e dimenticato, cui Olmi ha saputo, con maestria e compostezza registica, offrire risalto in ogni sua realizzazione. Buon viaggio, Maestro, e grazie.
2 risposte a "Ricordando Ermanno Olmi: Il posto (1961)"