Necessaria e doverosa premessa: la visione del film Moschettieri del re. La penultima missione, diretto da Giovanni Veronesi, anche autore della sceneggiatura insieme a Nicola Baldoni, mi ha sinceramente divertito ed una volta uscito dalla sala ho avvertito la curiosa sensazione di essere ritornato fanciullo, la mente sgombra da contorti pensieri e l’animo solleticato da un refolo gentile. Nel constatare poi quanto anche il pubblico in sala risultasse piacevolmente coinvolto, andavo quindi a meditare su come gran parte del merito dovesse certo attribuirsi ad un cast indovinato (con qualche distinguo che specificherò nel corso dell’articolo), coralmente incline ad andare oltre il copione nella caratterizzazione dei personaggi, assecondando una benvenuta autoironia. Non bisogna dimenticare, inoltre, la suggestiva scenografia naturale offerta dal territorio della Basilicata, forse lontana da un approccio realistico nel visualizzare la Francia del 1650, ma del tutto congeniale ad un iter narrativo idoneo ad avallare, pur palesando un certo affanno, tanto il senso dell’avventura, più picaresco che epico, quanto una marcata impronta immaginifica, quest’ultima non del tutto compiuta.
Andando alla trama del film, che poggia le sue basi ispirative sulle opere di Alexandre Dumas (padre), da I tre moschettieri (1844) a Il Visconte di Bragellone (1848~1850), passando per Vent’anni dopo (1845), tutto ha inizio con un viaggio verso le campagne francesi della regina Anna d’Austria (Margherita Buy), madre del giovane re Luigi XIV (Marco Todisco), accompagnata dalla fida ed impertinente ancella (Matilde Gioli). La sovrana è in cerca del prode D’Artagnan (Pierfrancesco Favino), constatando con stupore come l’ardimentoso moschettiere di un tempo, sono trascorsi trent’anni dall’ultima missione, sia ora un allevatore di maiali, qualche duello con i mariti che ha reso cornuti a presevarne la fama di abile schermidore, ma ormai l’odore della leggenda è propenso a confondersi con l’olezzo del letame. Sua maestà lo invita a radunare i vecchi compagni d’armi, a loro sarà affidata la salvezza degli Ugonotti, sui quali grava il violento rastrellamento perpetrato dal cardinale Mazzarino (Alessandro Haber), affiancato dalla perfida Milady (Giulia Bevilacqua). E così D’Artagnan andrà a scovare i suoi “quasi fratellastri”, Athos (Rocco Papaleo), lussurioso “ambidestro” sifilitico, Aramis (Sergio Rubini), ritiratosi in convento dopo aver ricevuto la chiamata (dei creditori) e Porthos (Valerio Mastandrea), trenta chili dopo, locandiere che annega nel laudano la disillusione arrecata dal mutamento dei tempi.
Gli acciacchi dell’età sono evidenti, ma lo spirito dei quattro è in fondo rimasto quello di un tempo, tutti per uno ed uno per tutti, anche se dirlo, a parer loro, sembra porti rogna…Riprendendo quanto scritto ad inizio articolo, il pregio essenziale di Moschettieri del re. La penultima missione è costituito dalle convincenti interpretazioni attoriali, a partire dall’affiatato quartetto maschile: il sempre indomito animo guascone del D’Artagnan delineato da Favino, che favella uno sconcertante idioma, sgrammaticato grammelot reso dalla mescolanza di lingua francese, italiana e spagnola, il decadente Athos cui Papaleo offre la dignità di chi sa mettere da parte i piaceri dell’alcova in nome dell’amor proprio e patrio, il meditabondo Aramis reso affabilmente da Rubini nei suoi interrogativi dolenti sul senso del sangue sparso in tante battaglie, gli stessi che attanagliano il rintontonito Porthos, un Mastandrea “fattone” leggermente di maniera ma efficace nel suo disincanto esistenziale, con l’erculea forza di un tempo ormai ricordo lontano, gli risulta difficile, infatti, far fuori gli avversari a mani nude.
Peccato che i personaggi femminili, con una lieve eccezione rivolta a Margherita Buy, divertita e divertente nei panni dell’augusta ed avvinazzata sovrana (dorme in cantina…), e a Matilde Gioli, perfetta nel rendere sfrontatezza ed ardimento sentimentale, appaiano a volte sacrificati e ciò è avvertibile nei riguardi della scarsamente incisiva Milady raffigurata da Giulia Bevilacqua, così come egualmente può scriversi per l’etereo personaggio di Cicognac affidato a Valeria Solarino. Poco rilevante anche la figura del cardinale Mazzarino delineata da Haber, mentre è certo riuscita l’interpretazione del servo muto “ultraresistente” (fa parte del corredo armigero in dotazione, insieme a quattro neri destrieri ed altri utili aggeggi, evidente richiamo alla saga di 007) affidata a Lele Vannoli, al quale si devono alcune delle gag più riuscite, come quella dell’attentato orchestrato da Milady ai danni dei moschettieri . Quando lo sgangherato quartetto non appare in scena, fortunatamente accade di rado, il film tende a spegnersi, mostrando cosí tutti i limiti di una scrittura che incespica su vuoti ed incongruenze, ambedue evidenti in particolar modo mano a mano che la narrazione giunge al suo epilogo, ma anche di una regia a disagio nelle scene d’azione, confuse e non del tutto coinvolgenti, alle quali nulla toglie e nulla aggiunge il pur valido commento sonoro di Luca Medici (ovvero Checco Zalone), comunque efficace nel coniugare epicità, lieve, e dissacrazione (la celentanesca Prisencolinensinaiciusol ad accompagnare il ritorno all’azione dei fantastici quattro).
Valido anche l’apporto della fotografia (Giovanni Canevari) nel dare risalto alle citate scenografie naturali (peccato per l’invasione dei droni che creano sovente un effetto da spot pubblicitario) ed evidente la cura riservata ai costumi (Monica Gaetani e Valentina Monticelli). Predomina sul realismo della ricostruzione storica propriamente detta la ricercata, ma non del tutto compiuta, determinazione della “fantasia al potere” che troverà opportuno dispiegamento nel sorprendente e spiazzante finale, rendendo plausibile una messa in scena ad altezza di bambino, al cui interno i già evidenti riferimenti all’attualità saranno più marcati, evidenziando l’importanza dell’immaginazione quale opportuno rimedio per mandar giù l’amaro rituale della quotidiana e rituale esistenza, ormai dominata da una pregnante aridità (…) “Come i medici, quando cercano di dare ai fanciulli il ripugnante assenzio, prima gli orli, tutt’attorno al bicchiere, cospargono col dolce e biondo liquore del miele, perché nell’imprevidenza della loro età i fanciulli siano ingannati, non oltre le labbra, e intanto bevano interamente l’amara bevanda dell’assenzio e dall’inganno non ricevano danno, ma al contrario in tal modo risanati riacquistino vigore” (…) (Lucrezio, De Rerum Natura).
In conclusione, non un capolavoro memorabile, ma un coraggioso, ed in parte riuscito, tentativo di conciliare il genere cappa e spada con quello della commedia, offrendo un onesto intrattenimento per famiglie, cui avrebbe giovato un piglio più energico, anche autoriale se vogliamo, nel sostenere l’eccellente intuizione di partenza atta a venir fuori dal pantano del consueto “pronto cuoci” italico, generalmente prono, fatte salve sporadiche eccezioni, ad accontentare tutti senza soddisfare nessuno.
L’ha ribloggato su Lumière e i suoi fratelli.
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