Lacci

(MyMovies)

Napoli, primi anni ’80, una festa di Carnevale, bambini ed adulti ballano sulle note del Letkiss. Ma nella danza, di gruppo o in coppia, così come nella vita, occorre seguire il ritmo e coordinare di conseguenza i propri passi con quelli degli altri, a meno che non s’intenda fuoriuscire dai parametri della prevista coreografia e ritrovarsi a gestire qualcosa d’inedito; è quanto succede ad Aldo (Luigi Lo Cascio), dopo aver partecipato alla suddetta festa insieme alla moglie Vanda (Alba Rohrwacher) e ai loro due bambini, Anna e Sandro: una volta a casa, provveduto alle mansioni “da buon padre di famiglia” (bagnetto ai figli, cena, visione insieme della televisione, favola della buonanotte), in seguito ad una banale discussione con Vanda le rivela di essere stato con un’altra, non riuscendo a fornire spiegazioni plausibili sul perché sia successo e su quale significato attribuire a quella che sembra essere una vera e propria relazione. Messo alla porta, Aldo andrà a vivere a Roma, dove lavora in radio, insieme a quella che d’ora in poi sarà la nuova compagna, Lidia (Linda Caridi), mentre Vanda, casalinga ed insegnante precaria, molto più energica e determinata del coniuge, il quale appare incline semplicemente ad assecondare quanto gli capita, si prodigherà per far sì che quel patto di lealtà, come lei lo definisce, stipulato circa dieci anni addietro, possa continuare ad essere rispettato, arrivando anche a gesti estremi quali il tentato suicidio o utilizzando quel legame a doppio filo rappresentato dai figli.

Luigi Lo Cascio ed Alba Rohrwacher (Globalist)


Ambedue sembrano timorosi di provare a perseguire un benché minimo di felicità, magari assecondando quei cambiamenti che a volte la vita può presentarci innanzi imponendoci delle scelte ben precise, fra rinunce e nuove possibilità, preferendo il limbo dell’ipocrisia, suffragato da una rassegnata mestizia. E così, trent’anni dopo, Vanda (Laura Morante) ed Aldo (Silvio Orlando) sono ancora insieme, fraternamente estranei, una casa piena di libri ed oggetti, un gatto, Labes, i figli ormai adulti segnati pesantemente dal turbinio familiare, Sandro (Adriano Giannini) gestisce tre relazioni e relativa prole, mentre Anna (Giovanna Mezzogiorno) non ne vuole sapere di sposarsi ed avere bambini; saranno proprio loro a far venire fuori le verità nascoste, d’altronde basta un lieve refolo a metter giù quanto costruito sulla sabbia… Film d’apertura, fuori concorso, della 77ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Lacci, tratto dall’omonimo romanzo di Domenico Starnone (Einaudi, 2014), anche autore della sceneggiatura insieme a Francesco Piccolo e al regista Daniele Luchetti, ne mantiene l’assunto originario, andando a differenziarsi per le modalità di messa in scena, volte essenzialmente a risaltare i curati dialoghi, quindi di conseguenza le interpretazioni attoriali, ma anche il non detto, ponendo al riguardo in opportuno rilievo gli oggetti e  gli arredi interni, quest’ultimi entrambi rivelatori di determinati atteggiamenti esistenziali, quando non vadano a celare quanto s’intenda tener nascosto in nome di una “lieta” convivenza, all’insegna, sempre e comunque, della pace armata.

Laura Morante e Silvio Orlando (MaSeDomani)

Se l’opera letteraria è strutturata in tre parti, ognuna suddivisa in capitoli, volte a descrivere, con diverse modalità, l’evento chiave della narrazione, la relazione extraconiugale, dal punto di vista di Vanda, Aldo ed infine dei due figli, quella cinematografica predilige invece un susseguirsi di flashback fra passato e presente, apparentemente scomposto ma in realtà incline a seguire il fluire dei vari ricordi, assecondato con scioltezza dal montaggio (Luchetti ed Ael Dallier Vega), mentre la regia, avvalorata ulteriormente dal lavoro sulla fotografia (Ivan Casalgrandi), avvicina sempre di più la macchina da presa  ai volti dei personaggi, scrutandone ogni espressione emozionale, anche semplicemente trattenuta, così da far emergere tutte le conseguenze proprie dell’incrinarsi, ancor prima che del rapporto amoroso e relativo coinvolgimento sensoriale, di quel sentimento di fiducia reciproca su cui dovrebbe essenzialmente basarsi una relazione: una volta minato, si lascia spazio alla diffidenza, al rancore, alla perdita di ogni senso da conferire alla vita, fino a quando, forse per punire se stessi di una qualche mancanza o incapacità, forse coltivando il timore che la solitudine possa essere nuova compagna, pensando anche alle difficoltà dei figli di vivere il dato di fatto della separazione, del divorzio o della crescita condivisa con un solo genitore, si ritorna con la mente a quel principio dell’indissolubilità del matrimonio cui tener fede.

Giovanna Mezzogiorno (Movieplayer)

Si fa di tutto, quindi, per mettere in atto una ricomposizione falsa, di facciata, anche perché l’altro di fronte a crescenti responsabilità all’interno della relazione con la nuova compagna e nel timore di come potervi farvi fronte, preferirà ancora una volta sopprimere la propria individualità (d’altronde è quanto mette in atto anche Vanda), circoscrivendola in un’infelicità dalla sicura durata, all’interno del “buon nido borghese”. Avendo letto ed apprezzato il libro di Starnone, ho trovato la sua trasposizione non del tutto convincente, pur elogiando, come su scritto, la regia di Luchetti e ritenendo del tutto valide le interpretazioni attoriali nel dare sostanziale e vibrante corporalità ai personaggi delineati sulla pagina scritta: forse gli avrebbe giovato una maggiore libertà dal  testo d’origine, in particolare nei dialoghi, per quanto piacevolmente ricercati, spesso ripresi integralmente dall’opera letteraria. Lo si evince dalla sequenza dello sfogo dell’Aldo anziano interpretato da Orlando, cui, fra l’altro, ogni piega del viso esprime rammarico e disillusione: non presente nel romanzo, rappresenta la rivendicazione  del diritto ad arrabbiarsi, celato da anni dietro una sorta di sussiegosa atarassia. E’ un momento, riporto la mia primaria sensazione, in cui il film appare propenso ad aprirsi e respirare proprio come Aldo, non più rinchiuso fra le mura degli appartamenti a farsi simbolo del quieto vivere e dell’ordine “sacrale”.

(Ibs)

Però, riprendendo in chiusura quanto scritto ad inizio articolo, credo che l’assunto proprio dell’opera di Starnone si stagli piuttosto nitido e distinto e, come nel libro, troverà compiuta manifestazione nella tardiva ma efficace ribellione dei figli nel portare il caos in quel paradiso artificiale costruito negli anni, guidata dalla apparentemente cinica Anna (una splendida Mezzogiorno, per immedesimazione e trasporto interpretativo), in realtà sensibile oltremisura, tanto da rimarcare i suoi sensi di colpa per desiderare fin da bambina quella felicità nel porsi alla vita che vedeva in Lidia. Ecco quindi materializzarsi  l’indispensabilità di una famiglia imperfetta, ovvero quella famiglia che, pur dovendo optare per la scelta inevitabile della separazione, riesce comunque ad abbattere il muro della conflittualità, anche in nome del benessere, psicologico in primo luogo, della propria prole, mantenendo una connotazione di rispetto e stima, la quale sarà certo notata ed apprezzata; il nucleo familiare perfetto probabilmente non esiste, potremmo considerarlo un ideale di comodo, esiste e resiste, invece, un modello familiare fuori dai consueti canoni, avvolto egualmente da affetto e comprensione  ove si privilegino dialogo e capacità di venirsi incontro rispetto ad egoismi e ripicche. Parafrasando quanto Tolstoj scriveva nella prefazione di Anna Karenina, tutte le famiglie perfette si somigliano, quelle imperfette possono fare la differenza per essere, necessariamente, felici a modo loro. Un film da vedere ed un libro da leggere, per riflettere su noi stessi, sulle nostre modalità esistenziali, fra ricordi del tempo vissuto e consapevolezza del presente, coltivando inedite speranze per quanto verrà.


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