Ambedue sembrano timorosi di provare a perseguire un benché minimo di felicità, magari assecondando quei cambiamenti che a volte la vita può presentarci innanzi imponendoci delle scelte ben precise, fra rinunce e nuove possibilità, preferendo il limbo dell’ipocrisia, suffragato da una rassegnata mestizia. E così, trent’anni dopo, Vanda (Laura Morante) ed Aldo (Silvio Orlando) sono ancora insieme, fraternamente estranei, una casa piena di libri ed oggetti, un gatto, Labes, i figli ormai adulti segnati pesantemente dal turbinio familiare, Sandro (Adriano Giannini) gestisce tre relazioni e relativa prole, mentre Anna (Giovanna Mezzogiorno) non ne vuole sapere di sposarsi ed avere bambini; saranno proprio loro a far venire fuori le verità nascoste, d’altronde basta un lieve refolo a metter giù quanto costruito sulla sabbia… Film d’apertura, fuori concorso, della 77ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Lacci, tratto dall’omonimo romanzo di Domenico Starnone (Einaudi, 2014), anche autore della sceneggiatura insieme a Francesco Piccolo e al regista Daniele Luchetti, ne mantiene l’assunto originario, andando a differenziarsi per le modalità di messa in scena, volte essenzialmente a risaltare i curati dialoghi, quindi di conseguenza le interpretazioni attoriali, ma anche il non detto, ponendo al riguardo in opportuno rilievo gli oggetti e gli arredi interni, quest’ultimi entrambi rivelatori di determinati atteggiamenti esistenziali, quando non vadano a celare quanto s’intenda tener nascosto in nome di una “lieta” convivenza, all’insegna, sempre e comunque, della pace armata.
Se l’opera letteraria è strutturata in tre parti, ognuna suddivisa in capitoli, volte a descrivere, con diverse modalità, l’evento chiave della narrazione, la relazione extraconiugale, dal punto di vista di Vanda, Aldo ed infine dei due figli, quella cinematografica predilige invece un susseguirsi di flashback fra passato e presente, apparentemente scomposto ma in realtà incline a seguire il fluire dei vari ricordi, assecondato con scioltezza dal montaggio (Luchetti ed Ael Dallier Vega), mentre la regia, avvalorata ulteriormente dal lavoro sulla fotografia (Ivan Casalgrandi), avvicina sempre di più la macchina da presa ai volti dei personaggi, scrutandone ogni espressione emozionale, anche semplicemente trattenuta, così da far emergere tutte le conseguenze proprie dell’incrinarsi, ancor prima che del rapporto amoroso e relativo coinvolgimento sensoriale, di quel sentimento di fiducia reciproca su cui dovrebbe essenzialmente basarsi una relazione: una volta minato, si lascia spazio alla diffidenza, al rancore, alla perdita di ogni senso da conferire alla vita, fino a quando, forse per punire se stessi di una qualche mancanza o incapacità, forse coltivando il timore che la solitudine possa essere nuova compagna, pensando anche alle difficoltà dei figli di vivere il dato di fatto della separazione, del divorzio o della crescita condivisa con un solo genitore, si ritorna con la mente a quel principio dell’indissolubilità del matrimonio cui tener fede.
Si fa di tutto, quindi, per mettere in atto una ricomposizione falsa, di facciata, anche perché l’altro di fronte a crescenti responsabilità all’interno della relazione con la nuova compagna e nel timore di come potervi farvi fronte, preferirà ancora una volta sopprimere la propria individualità (d’altronde è quanto mette in atto anche Vanda), circoscrivendola in un’infelicità dalla sicura durata, all’interno del “buon nido borghese”. Avendo letto ed apprezzato il libro di Starnone, ho trovato la sua trasposizione non del tutto convincente, pur elogiando, come su scritto, la regia di Luchetti e ritenendo del tutto valide le interpretazioni attoriali nel dare sostanziale e vibrante corporalità ai personaggi delineati sulla pagina scritta: forse gli avrebbe giovato una maggiore libertà dal testo d’origine, in particolare nei dialoghi, per quanto piacevolmente ricercati, spesso ripresi integralmente dall’opera letteraria. Lo si evince dalla sequenza dello sfogo dell’Aldo anziano interpretato da Orlando, cui, fra l’altro, ogni piega del viso esprime rammarico e disillusione: non presente nel romanzo, rappresenta la rivendicazione del diritto ad arrabbiarsi, celato da anni dietro una sorta di sussiegosa atarassia. E’ un momento, riporto la mia primaria sensazione, in cui il film appare propenso ad aprirsi e respirare proprio come Aldo, non più rinchiuso fra le mura degli appartamenti a farsi simbolo del quieto vivere e dell’ordine “sacrale”.