Colpi di fulmine: Diabolik/Don’t Look Up

(MyMovies)

Tra i film visti di recente, confermato l’amore per Paolo Sorrentino dopo la visione di E’ stata la mano di Dio, due in particolare hanno piacevolmente solleticato la mia anima più cinefila e pop, Diabolik dei Manetti Bros., seconda trasposizione cinematografica delle gesta del Re del terrore nato dalla fantasia delle sorelle Giussani, Luciana ed Angela, nel novembre del 1962, dopo quella, ipercinetica e rutilante, di Mario Bava (1968) e poi Don’t Look Up, scritto e diretto da Adam McKay, intelligente parodia-omaggio del genere catastrofico e al contempo lancio di un accorato grido d’allarme, in guisa di concreta metafora, sulla beata involuzione del genere umano nel suo complesso. Diamo il via alle danze con il tanto atteso Diabolik diretto dai Manetti Bros., anche autori della sceneggiatura insieme a Michelangelo La Neve, prendendo spunto, fra adattamenti e modifiche, principalmente dall’albo n.3, L’arresto di Diabolik (uscito l’1 marzo ’63, disegni di Gino Marchesi e sceneggiatura di Angela Giussani) e dal suo remake (collana Il grande Diabolik, 2012, disegni Giuseppe Palumbo e Pierluigi Cerveglieri, sceneggiatura Tito Faraci). Premetto di essermi piuttosto divertito, praticamente non ho staccato gli occhi dallo schermo dall’inizio alla fine, coltivando la ferma idea che i Manetti abbiano al contempo dato adito tanto ad un atto d’amore che ad un atto di coraggio.

Miriam Leone e Luca Marinelli (Movieplayer)

Il primo si sostanzia nella ricostruzione fedele delle atmosfere proprie degli anni ’60 così come risultanti dalle tavole disegnate ma anche dalle patinate riviste d’epoca (vedi le tonalità pastello dei vestiti e la fotografia di Francesca Amitrano), riprendendo nelle inquadrature le vignette d’origine (ad esempio il lancio del pugnale, con tanto di sonoro swiiiss), ricalcando poi gli stilemi dei dialoghi e lo schema narrativo di illustrare la dinamica dei colpi o l’incedere di determinati accadimenti prima o dopo la loro esecuzione o il loro verificarsi, ricorrendo anche anche allo split screen per riproporre la scomposizione illustrativa dell’albo d’origine. Riguardo il secondo aspetto, credo sia la logica conseguenza di quanto finora scritto, ovvero un ritmo narrativo che si rifà a quello proprio dei gialli o noir d’epoca, traendo ispirazione per le scene d’azione dal buon “vecchio” poliziottesco nostrano (la bella sequenza dell’inseguimento iniziale, le auto della polizia di Clerville a tallonare la Jaguar EType nera di Diabolik), con un uso della CGI nullo o limitato allo stretto indispensabile, ricorrendo anche a musiche del tutto consone al narrato (Pivio e Aldo de Scalzi, canzoni di Manuel Agnelli, fra le quali la splendida La profondità degli abissi) e ad una cura certosina delle scenografie, nella geniale intuizione di sfruttare diverse città italiane a rappresentare località immaginarie quali Clerville (Milano e Bologna) o Ghenf (Trieste).

Valerio Mastandrea (Movieplayer)

Tutto molto distante quindi (fortunatamente, almeno per lo scrivente) dai muscolari e obnubilanti giri di giostra dei cinecomic americani, anche a costo di un’apparente ponderatezza nell’incedere dell’iter narrativo, funzionale alle descritte modalità rappresentative. Eva Kant, interpretata da una magnifica e del tutto in parte Miriam Leone, affascinante e grintosa (“mogliettina un corno!”), va a costituire il motore principale dei vari avvenimenti, a partire dall’intervento salvifico verso “il genio del male” una volta che sarà arrestato, processato e condannato alla ghigliottina. La sua figura inoltre rappresenta un ben preciso percorso di emancipazione ed autodeterminazione nel lasciarsi alle spalle un passato burrascoso (la morte del marito in uno strano incidente di caccia, il lavoro in un locale gestito da un noto gangster, l’attività di spionaggio industriale in Sudafrica), seguendo emozione ed istinto nell’affidarsi ad un uomo del quale conosce poco o nulla, nascosto sotto le vesti di Walter Dorian (Luca Marinelli, forse fin troppo algido e compassato, per quanto possa ricordare in questo le primissime raffigurazioni dell’ “uomo dai mille volti”), ma che, come lei, appare noncurante di regole o convenzioni sociali. Ambedue infatti si dimostrano inclini ad adattare qualsiasi circostanza alla propria condotta di vita, così da trarvi congruo vantaggio, rispondendo ad una del tutto personale legge morale, comportante in primo luogo il rispetto della propria individualità e la strenua difesa delle proprie scelte esistenziali.

(Movieplayer)

Due persone sole, nel precipuo significato di avulse dall’ordinario contesto sociale, che una volta insieme diverranno un unicum di romanticismo, rispetto reciproco, fiducia, così come di astuzia e ferocia criminale. Se Eva è del tutto dissimile dalla precedente compagna di Diabolik, Elisabetta Gay (Serena Rossi), timorata e succube a quella sottomissione psicologica nota come gaslighting, altrettanto può scriversi per il pretendente della ammaliante milady, il viceministro della Giustizia Giorgio Caron (Alessandro Roja), individuo mellifluo, falso e meschino, simbolo di quei tanti uomini di potere che forti della sicumera offerta dalla loro posizione non esitano a commettere qualsiasi genere di illecito per arricchirsi indebitamente. Su tutto e tutti si erge poi la figura del granitico ispettore Ginko, l’ottimo Valerio Mastandrea nel rendere quel misto di pervicacia e rassegnazione, ammirazione e compassione, proprio di un uomo che ha fatto della caccia al “maledetto criminale” una ragione di vita, del tutto in corrispondenza con quell’ideale di legge e giustizia cui aderisce con convinzione: esplicativa al riguardo la sequenza che lo vede viso a viso con Diabolik sul molo del porto della città di Ghenf, quando i due esterneranno l’uno contro l’altro le rispettive modalità esistenziali.

(Movieplayer)

In conclusione, come hanno precisato gli stessi Manetti, questo non è un film su Diabolik, bensì il film di Diabolik, nato, come già scritto, da un atto d’amore per il fumetto e la cui trasposizione si sostanzia di “quella materia di cui sono fatti i sogni” (Shakespeare, La tempesta), andando a rappresentare una personalissima via italiana al cinefumetto, fra citazioni e rimandi: per gli annunciati due seguiti ci si aspetta una maggiore coesione narrativa ed una ancora più incisiva concretezza delle proprie capacità autoriali. Andiamo ora ad esaminare Don’t Look Up, scritto e diretto da Adam McKay, la cui narrazione prende il via dalla scoperta da parte della dottoranda in astronomia Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence) dell’esistenza di una cometa dalle proporzioni non indifferenti, fra i cinque e i dieci chilometri di diametro, proveniente dalla parte più esterna del pianeta solare: secondo i calcoli del suo professore, il Dr. Randall Mindy (Leonardo DiCaprio), è destinata ad impattarsi sul pianeta Terra nel giro di sei mesi e quattordici giorni, comportando l’estinzione totale di ogni forma di vita. Non resta che avvisare l’Ufficio Coordinamento Difesa Planetaria di Washington, nella persona del Dr. Clayton Teddy Oglethorpe (Rob Morgan), il quale a sua volta provvede a darne comunicazione alla Casa Bianca, dove tutti e tre vengono convocati.

Leonardo DiCaprio e Jennifer Lawrence (Movieplayer)

Il ricevimento avrà però luogo il giorno dopo: la Presidente Janie Orlean (Meryl Streep) e il viscido Capo Gabinetto, suo figlio Jason (Jonah Hill), intenti a risolvere, in vista delle prossime elezioni, uno scandalo sessuale che interessa un componente della Corte Suprema, fra ironia e cazzeggio impongono il diktat “attendere ed accertarsi”. I tre però intendono rendere pubblica la notizia, si rivolgono quindi dapprima alla stampa e poi alla televisione, un noto talk show condotto dagli affermati Jack Bremmer (Tyler Perry) e Brie Evantee (Cate Blanchett). Ma in ambedue i casi l’informazione sembra cavalcare la vacuità quale ispirazione primaria e la popolazione da parte sua non è altro che una plasmabile massa informe, tanto dai media che dai social, come ben sa Peter Isherwell (Mark Rylance), imprenditore miliardario a capo di una multinazionale dedita alla costruzione di smartphone sempre più evoluti, nonché finanziatore platinum della campagna elettorale, che vede nell’ormai sempre più vicina cometa la possibilità di sfruttarne a propri fini i ricchi minerali di cui è composta, in via di esaurimento sulla Terra, predisponendo quindi un piano per intercettarla… Don’t Look Up gode di una più che valida sceneggiatura, incline a sfruttare il genere catastrofico giocando con i suoi canoni (e le sue ovvietà), cui avrebbe giovato qualche sforbiciata qua e là.

Cate Blanchett e Tyler Perry (Movieplayer)

McKay riesce comunque a mettere in scena in primo luogo un’efficace satira sulla stolidità del potere costituito, servendosi di valide interpretazioni attoriali (ancor prima che la Streep mi hanno convinto la “tosta” e resistente Kate ottimamente resa dalla Lawrence e il professore Mindy cui DiCaprio offre un’interpretazione idonea a rivelarne ogni contraddizione) e di un ottimo montaggio (Hank Corwin), disseminando sprazzi di humour nero nel rimarcare il cammino verso l’autodistruzione (basterebbe la citazione di Jack Handey, Vorrei morire serenamente nel sonno come mio nonno, senza urlare di terrore come i passeggeri della sua auto). Mette poi in campo più di una riflessione sul prospettarsi di un progresso volto al mero arricchimento individuale, lungi da una condivisione che non sia solo apparente, in nome di un proficuo e congruo benessere generalizzato, così come sull’ottundimento mediatico/social di cui sembra affetta gran parte delle persone, che nella narrazione filmica andranno a costituire due gruppi ben distinti, ricalcando quanto avviene attualmente, evidente metafora, nell’ambito dell’ancora pressante emergenza sanitaria, sottovalutato campanello d’allarme sulle reali condizioni del pianeta: quelli che si lasciano convincere dagli slogan governativi, “non guardate sopra”, quindi proseguite tranquillamente nella rituale quotidianità di pecore obbedienti senza alcun colpo ferire e quanti invece andranno a schierarsi dalla parte opposta. “guardate sopra”, ovvero alzate la testa, andate con lo sguardo e con la mente, la vostra mente, al di là di qualsivoglia apparenza, preservate il potere di criticare e, soprattutto, ripristinate un contatto che sia propriamente e nuovamente umano, anche suggellato da una sentita spiritualità (esemplificativa a tale ultimo riguardo la sequenza della cena a casa del Dr. Mindy, attendendo la cometa).

Meryl Streep (Movieplayer)

La scelta registica, almeno riporto come al solito la mia primaria sensazione, è quella di visualizzare, senza fini moralizzanti e anche a costo di apparire compiacente, una sorta di catalogo ragionato dei tanti baratri in cui siamo caduti, forse senza accorgercene, “tappandoci le orecchie per non sentire e coprendoci gli occhi per non vedere”, nel corso di questi ultimi anni, dall’informazione “gossipara” e frivola o in veste di cinica ed opportunistica “mater dolorosa” , al rimbambimento mediatico o via web, passando per la materialità possessiva di ogni nostro comportamento o attitudine, anche considerando come tutto debba passare al vaglio della necessarietà di un profitto, in termini di gradimento o materialmente economico: non a caso, credo, nel vagare dei tanti oggetti d’uso quotidiano che volteggiano nello spazio siderale dopo l’impatto della cometa sulla superficie terrestre, si può anche notare la statua del toro (Charging Bull) di Wall Street, simbolo, insieme all’orso, dell’andamento in Borsa: il primo indica le azioni in salita, l’altro il loro ribasso. Concludo invitando ad attendere lo scorrere dei titoli di coda per ulteriori gustose sequenze (di cui quella conclusiva illuminante simbolo della stupidità umana) e riportando una mia considerazione su come Don’t Look Up offra tangibilità visiva ad un credo noto aforisma del buon vecchio Woody (Allen): L’umanità si trova oggi ad un bivio: una via conduce alla disperazione, l’altra all’estinzione totale. Speriamo di avere la saggezza di scegliere bene.


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