E’ stata la mano di Dio

(Movieplayer)

Incluso recentemente nella short list dei titoli papabili per una candidatura all’Oscar come Miglior Film in lingua non inglese, dopo aver ottenuto una nomination ai Golden Globe Awards ed essere stato presentato in concorso alla 78ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, dove ha conseguito il Leone d’Argento- Gran Premio della Giuria insieme al Premio Marcello Mastroianni a un giovane attore o attrice emergente per Filippo Scotti, oltre ad una serie di premi collaterali, E’ stata la mano di Dio, scritto e diretto da Paolo Sorrentino, si sostanzia alla visione come fra la più lineare delle sue realizzazioni, offrendo visualizzazione, come credo sia stato notato da molti, tanto ad un flusso ininterrotto di coscienza quanto ad un racconto di formazione. Ambedue rinvengono il proprio filtro elaborativo nell’obiettivo della macchina da presa, rendendo il cinema idoneo strumento catartico atto a visualizzare, per il tramite della vivida forza delle immagini, un personalissimo viaggio nei ricordi, così da riflettere su ciò che si è stati, su quello che si è divenuti e, ancora, su cosa si potrà essere una volta elaborati ed adattati alla propria essenza vitale determinati eventi relativi al proprio vissuto esistenziale, anche in confronto con quanto esternato dal rituale incedere quotidiano.

Filippo Scotti, Teresa Saponangelo, Toni Servillo (Movieplayer)

La narrazione prende il via attraverso un mirabile piano sequenza che, dall’alto verso il basso, tende a circoscrivere il mare intorno la città di Napoli, un abbraccio alla terra d’origine che d’ora in poi sarà vista e scandagliata nella sua complessità di fascino e contraddizioni per il tramite dello sguardo di Fabietto (Scotti), adolescente sensibile ed introverso. Insieme ai fratelli Marchino (Marlon Joubert), aspirante attore (è in attesa di un provino per Federico Fellini) e Daniela (Rossella Di Lucca), che sembra voler evitare ogni confronto o contatto col mondo esterno, il ragazzo conduce un’esistenza tranquilla, lo studio, la passione per il calcio, in attesa febbrile, siamo negli anni ’80, dell’arrivo di Diego Armando Maradona, potendo poi contare sulla presenza attenta dei genitori, mamma Maria (Teresa Saponangelo) e papà Saverio (Toni Servillo), oltre ad essere circondato da una colorita moltitudine di amici e parenti. Fra questi ultimi, ve ne sono alcuni quanto mai distanti dagli irreggimentati canoni comportamentali propri del “buon nido borghese”, come la zia Patrizia (Luisa Ranieri), della quale Fabietto è infatuato, tacciata di attitudine licenziosa quando non di follia: delusa da un matrimonio che non è stato salutato dall’arrivo di un figlio, la donna giustifica la propria disinibizione col racconto di particolari sogni che la vedrebbero istigata da San Gennaro e dalla mitica figura del Munaciello verso “modalità alternative” al congiungimento coniugale per potersi ritrovare in dolce attesa.

Luisa Ranieri (Movieplayer)

Le consuetudini di Fabietto e dei suoi fratelli saranno presto sconvolte da un tragico evento, l’improvvisa scomparsa di entrambi i genitori causa un banale incidente domestico nella loro villetta di Roccaraso, proprio quando si erano riconciliati dopo una crisi dovuta al tradimento di Saverio … Ne La mano di Dio Sorrentino ricorre sì ai consueti “marchi di fabbrica” (i frequenti piani sequenza ad esempio, che assicurano una pregevole scorrevolezza narrativa, le ampie carrellate alternate ai primi piani di persone, luoghi, oggetti), ma anche ad un simbolismo meno accentuato ed estroso se messo a confronto con i precedenti lavori; in forza della nitida fotografia (Daria D’Antonio), ma soprattutto della naturale ed intensa interpretazione offerta da Scotti, suo alter ego, dà vita ad una sorta di transfert di quella che è stata la sua giovinezza, prima e dopo l’evento che ne avrebbe segnato per sempre l’esistenza. Fabietto Schisa quindi, dopo l’inevitabile turbamento e attraversando vari dilemmi fra scelte e rinunce, diverrà definitivamente Fabio, offrendo concretizzazione all’idea che se la realtà offre il destro a più di una delusione allora occorrerà allora rinvenire una congrua panacea nel contrapporre ad essa un “mondo altro”, parallelo ed alternativo, un microcosmo atto a contenere un diverso ordine delle cose, quest’ultimo non necessariamente più regolare e coeso, ma comunque tale da compensarne l’andamento sussultorio tra gioie e dolori, offrendo rifugio ai “sassi e dardi scagliati dall’oltraggiosa fortuna” (Shakespeare, Amleto), ovvero il cinema quale mezzo al contempo trasmutativo e critico dell’ordinarietà quotidiana.

Marlon Joubert e Scotti (Movieplayer)

Fondamentale al riguardo più che la totale immersione nel mondo cinematografico attraverso la visione di film o l’incontro “fulminante” con un regista di culto (vedi il continuo rimando della visione del leoniano C’era una volta in America o il non avvicinarsi ad una figura ritenuta distante come quella di Fellini, sceso a Napoli, episodio di fantasia, per dei provini), sarà il confronto con un cineasta ruvido e poco accomodante come Antonio Capuano (Ciro Capano), che non solo lo metterà di fronte alla situazione concreta (“non ti hanno lasciato solo, ti hanno abbandonato”, urla a Fabietto che si lamentava di come non gli avessero fatto vedere i genitori una volta deceduti), ma soprattutto gli rivolgerà l’invito “definitivo” a non disunirsi: anche se dovesse lasciare Napoli come da palesata intenzione non dovrà mai perdere il contatto con quello che è stato il suo vissuto fino a quel momento, quella napoletanità che nel corso della narrazione ci appare sospesa fra disincanto e fatalismo, tradizioni ataviche e sofferta innovazione. Una città avvolta nell’attesa messianica per l’arrivo di El pibe de oro e del quale ogni gesto sul campo di calcio potrà rappresentare una sorta di “aurea sospensione” dei giornalieri affanni oppure ammantarsi di vari significati, come quelli politici o salvifici esternati da zio Alfredo (Renato Carpentieri) nel commentare rispettivamente il gol segnato con l’arto superiore e l’evocazione della mano di Dio che ha sottratto Fabietto alla morte, non essendosi recato coi genitori a Roccaraso per assistere ad una partita della squadra del cuore.

E così una volta rotta la crisalide, l’ormai cresciuto ragazzino prenderà il treno per Roma, in forza di una crescita interiore che lo vedrà, dopo il saluto al Muniacello, annunciante il definitivo distacco dall’età della fanciullezza, prendere il volo per una inedita dimensione, umana ed artistica, sempre in divenire, aperta al futuro ma comunque legata alle vicende di un passato difficile da dimenticare, anche se ora elaborate in forma propositiva. Andando a concludere, con E’ stata la mano di Dio Sorrentino delinea con toni più diretti, a tratti onirici e surreali, ma sempre all’interno di una circoscritta realtà, una sincera teatralizzazione relativa ai propri trascorsi esistenziali, commossa e commovente, soffusa di una certa ironia, confermandosi ancora una volta autore incline a conferire alla narrazione un notevole fascino a livello visivo e rappresentativo, capace di sorprendere e spiazzare ad ogni suo nuovo lavoro e, a parere di chi scrive, destinato a convivere, almeno sino alla definitiva consegna ai posteri (il tempo può essere galantuomo, anche in campo cinematografico), tra estimatori e detrattori a contendersi il campo in eguale misura.


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