Roma, anni ’50. Maria Rossetti (Lea Padovani), giovane donna, vedova e con un bambino, sbarca il lunario lavorando come sarta, tanta fatica e poco guadagno. Le è stata recapitata una notifica dell’ufficiale giudiziario, l’avviso della messa in vendita dei mobili, che avverrà nel giro di poche ore se non verserà la somma necessaria ad ovviare all’incresciosa situazione. Sopravviene subitamente lo sconforto, tanto da andare con la mente ad una soluzione che le era stata suggerita da una vicina, recatasi nel suo appartamento per un rammendo urgente al vestito: frequentare, come lei stessa era solita fare da tempo, un noto locale notturno e concedersi a persone danarose, entrando così nel loro giro. Una volta affidata la creatura alla dirimpettaia, Maria, vincendo a stento la vergogna in nome dell’urgente necessità, si recherà dunque all’Ariston, dove verrà notata da tale Rocco Bardelli (Antonio De Curtis), agiato possidente, giunto nella Capitale, insieme al fratello Martino (Peppino De Filippo), in cerca di facili avventure, vantando trascorsi da “uomo di mondo”. Dopo una serie di peripezie la donna andrà via dal locale, seguita prontamente dai due uomini, con Rocco ormai deciso all’abbordaggio, che riuscirà, anche se, vista la difficoltà di trovare posto in un vicino albergo dove il portiere ha ricordato come lì “si dorma veramente”, non resterà altro da fare che recarsi nell’appartamento di Maria, adottando le opportune cautele per evitare sguardi indiscreti. Le avance esternate da Rocco, una volta provveduto a versare la somma per la prestazione in anticipo, non andranno però a buon fine, soprattutto quando il vicino suonerà alla porta con in braccio il bambino che gli era stato affidato, ora febbricitante e con difficoltà respiratorie. Il consumato seduttore si recherà allora alla farmacia notturna per rinvenire un dottore (Aldo Fabrizi), mentre Martino…
Diretto da Aldo Fabrizi, anche autore della sceneggiatura insieme ad Aldo De Benedetti, adattando una novella di Giorgio Bianchi, Una di quelle (o Totò, Peppino e…una di quelle, altro titolo con cui fu edito), rientra probabilmente fra i titoli meno noti nell’ambito dell’attività registica dell’artista romano, così come nel novero della filmografia di Totò, qui alla seconda prova attoriale sia insieme a Fabrizi, dopo Guardie e ladri (1951, Mario Monicelli e Steno) che a Peppino De Filippo (la loro prima volta risale al 1952, Totò e le donne, sempre Steno e Monicelli). Un’opera che, come già notato da molti, si pone a metà strada fra la tradizione propria del nostro realismo e il melodramma, innestando sui citati stilemi una comicità piuttosto misurata, dove i giochi di spalla fra Totò e Peppino, gli scontri fisici e verbali, nonché il nonsense e i calembour, appaiono limitati ad inizio narrazione e nel finale, oltre che in guisa di intermezzo a lenire i momenti più drammatici, in particolare quelli che vedono prospettarsi la possibile morte di un bambino causa difterite. De Filippo dà ulteriori tocchi di cesello a quello che che diverrà il consueto ruolo di “vittima sacrificale”, qui anche nei confronti di Fabrizi, che si ritaglia il ruolo su misura del dottore, uomo burbero e borbottone ma dal cuore d’oro, propenso a fornire congrui consigli per l’anima ancor prima che per il corpo, ad esempio quelli esternati a Rocco e Maria, da lui individuati come una coppia con molte difficoltà ad andare d’accordo (“io vi devo chiedere scusa, ma mi sembrate due estranei, ecco...”).
Come già nel citato Guardie e ladri in Una di quelle Totò ha l’occasione di dare prova della sua indubbia poliedricità, propria di un attore a tutto tondo, capace con pochi gesti e sguardi di passare dal comico al tragico, conferendo toni estremamente realistici e pregni di profonda umanità al personaggio di Rocco, uomo semplice e dal cuore buono, seduttore, come lui stesso afferma, “solo per darsi un contegno”. E’ una di quelle interpretazioni toccanti e pregne di profonda umanità profuse dal Principe della risata, capace di mettere da parte gli abiti della scatenata marionetta che con fare birbante affronta la realtà a colpi di surreali sberleffi, coreografiche piroette e mimica irriverente: un po’ come Pinocchio una volta abbandonato l’involucro di legno che ne rivestiva l’essenza di bimbetto assennato, Totò suffraga ora tratti intimamente dolenti, mai però scadenti nel patetismo, dando adito ad una recitazione che sembra voler dare voce, riuscendoci, a quegli uomini ritenuti dai più dei poveri fessacchiotti semplicemente per il loro assecondare l’inclinazione ad offrire spazio alla bontà d’animo e alla solidarietà, le sole doti che possono concedere, a Rocco e alle donne illuse dalla vita come Maria, una vera e profonda ragione d’esistere, all’insegna del rispetto della dignità umana e della comprensione reciproca: “A Montefiore, il paese mio, ci sta un uomo che vive solo, che sarebbe tanto felice se la sera ritornando a casa trovasse una persona che l’aspettasse…e gli sembrerebbe un sogno poter accompagnare ogni mattina un bambino a scuola…”.
Ecco perché, andando a concludere, ritengo che Una di quelle, pur nei limiti descritti derivanti dal connubio di vari generi a volte in contrasto fra loro, sia un film da riscoprire, sempre contestualizzandolo all’epoca di realizzazione, vuoi per le interpretazioni attoriali (la Padovani è a suo agio nel ruolo, fra abbattimento e ritrovata speranza), vuoi, ancora, per l’agile regia di Fabrizi, cui bastano poche inquadrature nell’appartamento di Maria per trasmetterti il senso di povertà dignitosa, la fatica ad andare avanti puntando sulle proprie forze e la rettitudine morale, fino al comprensibile sbandamento, potendo contare poi sull’apporto di Gábor Pogány alla fotografia (rimarchevole l’aspetto tetro, spettrale, opprimente, conferito ai palazzoni della periferia romana, anche alla prima luce del mattino). Si delinea poi quale congruo esempio di un cinema capace di guardare al reale con occhio diverso, forse bonario e fin troppo ottimistico, ma comunque volto ad infondere la speranza concreta di un’umanità ancora vivida e pulsante, nonostante gli strascichi della Seconda Guerra, al momento distante dagli abbagli del boom economico e capace di esternare un abbraccio condiviso tra esseri umani in quanto tali.
L’ha ripubblicato su Lumière e i suoi fratelli.
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