Nostalgia, ovvero il dolore del ritorno seguendo l’etimologia greca (νόστος, ritorno, e άλγος, dolore), quel senso di cupa e profonda tristezza, inevitabile, che ti attanaglia non solo quando ci si trova lontani da luoghi o persone cui si è intimamente legati, ma anche, forse precipuamente, una volta che ci si imbatte nuovamente in quei “posti dell’anima”, dove il tempo, nel bene e nel male, non sembra aver apportato alcun cambiamento e ci si illude di poter rinnovare quelle sensazioni provate anni addietro, da bambini o da ragazzi, assecondando la spensieratezza e poi il suo graduale scemare, magari condividendo il tutto con un coetaneo, amico fidato che ritieni possa essere ancora congiunto a te da un passato comune, anche se con più di un punto in sospeso. E’ quanto accade a Felice Lasco, superbamente interpretato da Pierfrancesco Favino, lungo l’iter narrativo di Nostalgia, film diretto da Mario Martone, anche autore della sceneggiatura insieme ad Ippolita Di Majo, presentato in concorso al 75mo Festival di Cannes e liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Ermanno Rea (Feltrinelli, 2016). Il nostro, 55enne, fa ritorno a Napoli dopo 40 anni di assenza, nel corso dei quali ha vissuto dapprima a Beirut e poi a Il Cairo, città quest’ultima dove risiede insieme alla moglie, dottoressa in ospedale, potendo vantare una certa agiatezza economica, conseguente al duro lavoro cui non si è mai sottratto. Ora parla un italiano inevitabilmente “sporco”, si è convertito all’Islamismo ed una volta giunto nel capoluogo campano appare magicamente attratto da ogni anfratto, vicolo, strada, adoperandosi in una silente perlustrazione notturna, volta probabilmente a sincerarsi dell’immutabilità di quei posti, che gli appaiono così come il ricordo ne fa fluire l’immagine in mente, cristallizzati in una idealizzata dimensione.
Ma il mattino seguente Felice avrà modo di sincerarsi del reale stato delle cose: recatosi al Rione Sanità, dove è cresciuto, rimarrà stupito nel constatare come l’anziana madre Teresa (Aurora Quattrocchi) non viva più nel suo appartamento, ora occupato da una famiglia i cui componenti sembrano lontani dal riservare un minimo di gentilezza, bensì in un basso dello stesso stabile. Tale Oreste Spasiano (Tommaso Ragno), suo vecchio amico, meglio conosciuto come o malommo, ha provveduto al “trasloco”, pagando una miseria per il “disturbo”; Felice allora si prenderà cura della mamma, riservandole amorevoli attenzioni (intimamente toccante e simbolica la sequenza del bagno), oltre ad affittare una nuova abitazione, anche se da lì a poco la donna morirà, confortata dalla presenza di quel figlio che, col mestiere di sarta, ha cresciuto da sola, cercando invano di preservarlo da cattive frequentazioni. Ormai con la mente avvolta dal fluire delle rimembranze di gioventù, Felice vorrebbe restare a Napoli, assecondando il ritorno di particolari sensazioni, come l’attraversare i vicoli su di una rombante motocicletta in compagnia di Oreste, dediti ad attività quali furti e scippi, ricordi alimentati dall’incontro di vecchi conoscenti e ridimensionati verso la demitizzazione da Don Luigi Rega (Francesco Di Leva), sacerdote conosciuto in occasione del funerale della madre che si prodiga, ha anche allestito una palestra di boxe all’interno della chiesa, nel sottrarre i giovani da un destino segnato, che li vorrebbe manovalanza della delinquenza. Il sacerdote, infatti, cerca sì di comprendere quel senso d’incompiutezza, di rapporto irrisolto, che Felice avverte nei confronti di Oreste come della città in cui è nato, ma l’invita a desistere dall’incontrarlo, meglio dimenticare il passato e ritornare al più presto in Egitto, quella fuga a 15 anni in quel di Beirut, spalleggiato da uno zio, dopo un evento delittuoso in cui era incorso insieme al malommo, è stata la sua salvezza…
Una sceneggiatura senza particolari sbavature, la sinergia funzionale tra la rigorosa regia di Martone e la recitazione di Favino, rimarchevole quest’ultima nel rendere del tutto palpabile e naturale la trasformazione di Felice da uomo un po’ impacciato, anche nell’idioma, e poi del tutto integrato nella città natia, accettandone in toto contraddizioni e stridori, fino ad abbandonare l’espressione cupa e corrugata a favore di un disarmante sorriso, rendono Nostalgia un’opera vibrante nella sua profonda immedesimazione con la città di Napoli, resa visivamente da Martone avallandone l’essenza realisticamente antropologica, con il Rione Sanità girone infernale senza alcuna possibilità di venir fuori a riveder le stelle, attraversato in ogni suo angolo da una sorta di richiamo ancestrale, incline ad avvolgerti con la sua primordiale bellezza, ma al contempo a renderti il dolore proprio della piaga di una supina accettazione relativa allo status delinquenziale, cui si può comunque tentare di opporre una strenua difesa come quella messa in atto da Don Luigi, cercando non tanto lo scontro frontale quanto la condivisione di un minimo d’umana comprensione e cristiana misericordia. Di indubbia rilevanza poi, nel rendere l’afflato descritto, la fotografia di Paolo Carnera, creatrice di un’atmosfera sospesa fra un fluire mnemonico dalla grana onirica (le sequenze dei trascorsi giovanili, in 4:3), orrore quotidiano ed una inquietante aura di mistero (il giro delle case del Rione Sanità con il citato sacerdote), così come il congruo commento sonoro (encomiabile la sottolineatura nella sequenza iniziale, dove le modulazioni jazz del brano vanno ad integrarsi con i rumori del traffico). Martone fa sì che la macchina da presa divenga un tutt’uno con la città e col personaggio di Felice, rendendone lo sguardo a noi spettatori, volto ad un quartiere ormai vero proprio microcosmo alternativo, catacomba a cielo aperto, dove ogni singolo mattone provoca un sussulto emozionale, dalle citate scorribande in sella alla moto con Oreste, alla ricerca di colpi da mettere a segno, fino a quell’evento fatale che andrà a mutare il destino di entrambi.
La differenza sarà dovuta alla circostanza che per uno il citato accadimento rappresenterà la possibilità di rinascere a nuova esistenza, per l’altro invece la perpetuazione di una condizione che non avrà mai fine, all’insegna di una fallace supremazia verticistica in nome di una immoralità quale altare su cui sacrificare una vita vissuta in pieno, al colmo degli affetti e della realizzazione personale: emblematica al riguardo la sequenza che vede Felice sorridente nel giardino della sua abitazione napoletana e Oreste osservare il rione all’interno dello squallido cortile di un fatiscente palazzo o quella che vede o malommo in compagnia fugace di una prostituta. Un film, Nostalgia, andando a concludere, intriso in eguale misura di una soffusa elegia e di un crudo disincanto, dove il classico adagio occorre perdersi per poi ritrovarsi, simboleggiato dalla didascalia iniziale (La conoscenza è nella nostalgia, chi non si è perso non possiede, Pier Paolo Pasolini, da Poesia in forma di rosa), troverà un risvolto amaro nella impossibilità di un mutamento e nella illusione di una sua concretizzazione, due eserciti l’un contro l’armati, per una lotta che non avrà né vincitori né vinti, all’interno di uno squallido “deserto delle anime” dominato dall’annullamento di qualsivoglia residua umanità. “Ecco dove avrebbe voluto trovare casa, perché lì la Sanità sa come da nessun’altra parte di ventre materno, primogenitura, principio di un lunghissimo passato mai passato, silenzio e tumulto di un fuoco che continua a covare sotto la cenere” (dal libro Nostalgia di Ermanno Rea).
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