Oggi, mercoledì 27 luglio, ricorrono cento anni dalla nascita di Adolfo Celi (Messina, 1922-Siena, 1986), indimenticabile attore, cinematografico, teatrale e televisivo, dalla proverbiale poliedricità, a suo agio tanto nei ruoli da villain quanto in altri votati precipuamente alla commedia, offrendo in entrambi i casi disinvoltura e signorilità nel porsi in scena, doti esaltate da un aspetto fisico imponente e dal volto caratterizzato dal naso aquilino e dallo sguardo penetrante, ai quali si accostava a volte un sorriso beffardo, a sottolineare quest’ultimo un certo cinismo o un’aria da consumato viveur, ben celata dal velo della irreprensibilità borghese d’ordinanza. Nel primo ambito possiamo ricordare, ad esempio, il perfido industriale brasiliano Mario De Castro in L’homme de Rio (Philippe de Broca, 1964), lo spietato numero 2 della Spectre Emilio Largo in Agente 007- Thunderball (Terence Young, 1965), sfidato a tutto campo dall’ineffabile Bond, James Bond (Sean Connery), Sir James Brook, il rajah bianco di Sarawak, raffinato compendio di mire espansionistiche attuate con strategica ferocia e profondo rispetto per l’avversario, il giustiziere in vesti di pirata Sandokan, “la tigre della Malesia” (Kabir Bedi), nello sceneggiato televisivo diretto da Sergio Sollima (secondo canale Rai, 6 puntate dal 6 gennaio all’ 8 febbraio 1976), tratto dai romanzi di Emilio Salgari (Le tigri di Mompracem e I pirati della Malesia).
Riguardo il secondo, ecco invece l’illustre chirurgo prof. Sassaroli ad aggiungersi quale ingegnoso compagno di zingarate al gruppo di Amici miei (Mario Monicelli, 1975), il giornalista Perozzi (Philippe Noiret), l’architetto Melandri (Gastone Moschin), il Necchi (Duilio Del Prete), proprietario e gestore di un bar insieme alla moglie, ruolo che andrà ad interpretare poi nell’Atto II (1983, Monicelli) e nell’Atto III (Nanny Loy, 1985), ma anche l’irreprensibile giudice pronto a rendere presto evidente la propria autorevolezza (Piripicchio è figlio di Uragano e Apocalisse: e basta! O faccio sgombrare l’aula!) in Febbre da cavallo (Steno, 1976). Celi fece ritorno in Europa intorno gli anni Sessanta, dopo una permanenza in Brasile durata quindici anni, che lo vide direttore del Teatro Brasileiro da Comoedia di San Paolo, fondato con la moglie Tonia Carrero e Paulo Autran, e del Teatro dell’Opera di Rio de Janeiro, oltre che regista e produttore di alcuni film (Caiçara, 1950; Tico-Tico no Fubà, 1952): si era qui trasferito una volta finite le riprese in Argentina di Emigrantes (Aldo Fabrizi, 1949), mentre il suo esordio cinematografico, dopo aver conseguito il diploma di regista all’Accademia d’arte drammatica di Roma ed essersi prodigato in una serie di lavori teatrali, risale al 1946, Un americano in vacanza di Luigi Zampa.
Per ricordarne la figura, rimarcandone la descritta duttilità, la mia scelta si è riversata su uno sceneggiato targato Rai del 1972, di cui Celi fu protagonista, Joe Petrosino, 5 puntate trasmesse dall’allora Programma Nazionale in prima serata, dal 15 ottobre al 16 novembre, per la regia di Daniele D’Anza, anche fra gli autori della sceneggiatura insieme a Lucio Mandarà, Fabio Gualtieri e Luigi Guastalla, rinvenendo idoneo soggetto nei romanzi Joe Petrosino (Arrigo Petacco, Mondadori, 1972) e Petrosino e il figlio del diavolo (Secondo Signorini, Il Giallo Mondadori). Giuseppe, Joe, Petrosino fu sergente, in seguito tenente, del New York City Police Department, ed era originario di Padula, paese in provincia di Salerno, dove nacque nel 1860, da famiglia di modeste origini ma non indigente, visto che il padre, sarto, riuscì a far studiare i quattro figli maschi, per poi emigrare negli Stati Uniti nel 1873, dove il nostro, crescendo a Little Italy, si diede da fare come venditore di giornali e lustrascarpe, per poi trovare lavoro come netturbino, al tempo mansione alle dipendenze della polizia, nel cui corpo venne ammesso nel 1883. Furono così abbattute tutte quelle resistenze che volevano fra le fila dei poliziotti newyorkesi, lunga tradizione, irlandesi ed ebrei, e d’altra parte Joe si era già distinto in qualità d’informatore, fino ad essere notato per la sua perspicacia e determinazione da Theodore Roosevelt, allora assessore alla polizia della Grande Mela, il quale, interessandosi alla sua nomina a sergente, fece sì che potesse condurre indagini in luogo del servizio d’ordine pubblico.
Da qui, siamo nei primi anni del Novecento, prende il via la narrazione dello sceneggiato, Petrosino con i suoi travestimenti e attraverso metodi non sempre ortodossi, agendo per lo più in solitaria, riesce ad infiltrarsi nei luoghi frequentati dalla malavita, prendendo di mira in particolare un’associazione criminale nota come La mano nera, dedita, fra altri reati come lo sfruttamento della prostituzione, al taglieggiamento a danno di onesti immigrati italiani, che con enormi sacrifici si sono dati da fare per mettere su una bottega, una pizzeria, una piccola attività e che ora si trovano costretti a pagare una somma di denaro quale inedita imposta per poter proseguire il proprio lavoro. Il corpulento poliziotto intuisce poi come dietro tale organizzazione vi sia qualcosa di ben più strutturato e ramificato, ovvero una sorta di “azienda” dedita all’esportazione dall’Italia in America di persone affiliate alla mafia, tramite la falsificazione dei certificati penali e appoggi compiacenti, compresi quelli di uomini politici, all’insegna del “favore chiama favore”, situazione che andrà a migliorare nel 1907, una volta approvata la legge che permetterà l’arresto e l’espulsione, in quanto cittadini indesiderabili, di coloro che risultassero ricercati o pregiudicati nei rispettivi paesi d’origine, sempre che risiedessero in America da meno di tre anni, attività che vide al lavoro, guidata da Petrosino, ora tenente, una squadra di cinque persone, tutte italiane.
Una volta compreso come buona parte dell’attività delinquenziale venisse guidata da Don Vito Cascio Ferro (Massimo Mollica) e con risvolti che vedevano coinvolto anche l’onorevole italiano Palizzolo, Joe decide di recarsi in Sicilia per stringere il cerchio definitivamente, ma quella che doveva essere una missione segreta sarà invece sulla bocca di tutti, a partire dalla conferenza stampa voluta dal Generale Bingham (Enzo Tarascio), una fuga di notizie che avrà tragiche conseguenze… L’interpretazione offerta da Celi della figura dell’integerrimo poliziotto italo-americano, piuttosto immedesimativa, appare altresì sobria e misurata, attenta a rimarcare determinate sfumature caratteriali quali l’intraprendenza e la ferrea determinazione ostentata nella volontà di debellare coloro che macchiavano di sangue e infamia il duro lavoro degli immigrati italiani, intenti ad assicurare un futuro per sé e la propria famiglia sulla base del sacrificio e dell’onestà, rifuggendo comunque dalla “beatificazione”, considerato infatti come ne venga evidenziata anche l’eccessiva fiducia, al limite dell’ingenuità, nelle proprie risorse o nell’affidarsi alle alte cariche istituzionali, spesso impelagate in cavilli legali o burocratici, quando non in problemi d’immagine oppure inclini a guardare con sospetto le attività in solitaria, per quanto baciate dal successo, sia in ambito legale che umano.
Spazio poi anche all’aspetto più intimo e privato di Petrosino, bastano poche sequenze ed accorte inquadrature per evidenziare il rapporto con la moglie Adelina, la splendida ed intensa Maria Fiore nel raffigurare una donna la cui determinazione è pari a quella del coniuge nello stargli accanto, sostenendolo nella piena consapevolezza di come la vita di ambedue sia appesa al classico filo. La descritta sobrietà interpretativa, propria dell’intero cast, appare poi proficuamente sinergica ad uno stile, narrativo e visivo, anch’esso piuttosto diretto ed essenziale, tale da richiamare, riporto la mia primaria impressione, sia il documentario che l’inchiesta giornalistica, mentre la regia di Daniele D’Anza si rivela piuttosto “agile” tanto nelle poche sequenze in esterni quanto in quelle, più frequenti, in interno. L’apparente impatto teatrale, nella prevalenza di inquadrature strette intorno ai personaggi, viene movimentato infatti dal frequente impiego dello zoom, inteso a catturare ogni espressione emozionale in primo piano, lasciando poi sottesa la sensazione di una verità che è sotto gli occhi di tutti, intuibile ma lungi dall’essere propriamente rivelata, offrendo comunque rilevanza a determinati ideali che persone come Petrosino sublimarono quale propria ragione esistenziale e che si vorrebbero propri dell’umanità intera, pur nella sofferta cognizione di come sia inevitabile la dicotomia fra bene e male, “due eserciti l’un contro l’altro armati”, che d’altronde va ad alimentare, sempre e comunque, in sentore di reciprocità, la sussistenza di entrambe le entità.
Per quanto l’azione, già non molto frequente, si faccia meno sostenuta, ho trovato piuttosto interessanti le puntate ambientate a Noto e a Palermo, in quanto ritengo rendano evidente con vivida efficacia quel clima da “frontiera” alimentato dalla collusione tra mafia e politica, tale quest’ultima da rendere una coltre pressoché impenetrabile nel gestire la res publica quale affare personale, tra favoritismi clientelari e accomodamenti violenti di qualsiasi situazione che potrebbe comportare una qualche incrinatura. Egualmente affascinante la puntata conclusiva, in cui Celi appare nella veste di narratore, cercando di far luce sull’omicidio di Petrosino (avvenuto a Palermo, il 12 marzo 1909, quattro revolverate), sui processi che ne conseguirono e sugli atteggiamenti riscontrabili all’interno del complesso sociale ed istituzionale. Da menzionare in chiusura la nitida fotografia in bianco e nero di Alberto Caracciolo, la buona resa di scenografie (Lucio Lucentini) e costumi (Antonella Cappuccio) nel ricostruire l’epoca degli accadimenti, senza dimenticare una colonna sonora sempre funzionale al narrato (Romolo Grano), comprensiva di due sigle d’apertura e chiusura: la prima, Black Hand, eseguita dai New Trolls e composta da Grano, Pino Calvi e Vittorio De Scalzi, è un montaggio in rapida successione di fotogrammi e sequenze, culminante nel ralenti ripetuto visualizzante l’uccisione di Petrosino, mentre la seconda, sulle note di 4 colpi per Petrosino composta da Grano e D’Anza, cantata da Fred Bongusto, vede susseguirsi alcune strisce di una storia a fumetti* dedicata all’intrepido tenente, a conferma dell’influenza della sua attività nell’immaginario collettivo.
*Sensazionali avventure del poliziotto italiano Petrosino, disegni di Ferdinando Vicini, L’Avventuroso dell’Editore Nerbini di Firenze, 4 episodi pubblicati tra il 1938 e il 1940
L’ha ripubblicato su Lumière e i suoi fratelli.
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