Sicilia, 1920. Luigi Pirandello (Toni Servillo) fa ritorno a Girgenti, paese natio, con l’intenzione di recarsi a Catania, in occasione dell’ottantesimo genetliaco di Giovanni Verga. L’arrivo è rattristato però dalla notizia della morte di Maria Stella (Aurora Quattrocchi), l’amata balia cui il drammaturgo intende offrire un degno funerale ed una ancor più degna sepoltura. Incaricati del servizio saranno i rinomati cassamortari Sebastiano Vella (Salvo Ficarra) e Onofrio Principato (Valentino Picone), i quali renderanno presto edotto Pirandello, che non hanno riconosciuto, di tutte le problematiche legate al rinvenire un loculo al cimitero, risolvibili oliando adeguatamente i giusti ingranaggi, ovvero il preposto al relativo ufficio comunale, aduso ad allertarsi prontamente una volta ricevuta adeguata “provvigione”. Assicurato l’eterno riposo alla donna, i becchini riveleranno al cliente, presentatosi come professore di letteratura, la loro passione per il teatro, che li ha indotti a mettere su una compagnia alla buona, “professionisti dilettanti”, raggruppando familiari e amici, così da portare al più presto in scena La trincea del rimorso, ovvero Cicciareddu e Pietruzzu, “commedia-tragedia” scritta da Onofrio, alla cui prima si premurano d’invitarlo. Se i due sono alle prese con determinate problematiche familiari, Onofrio è infelicemente sposato con la figlia del suo principale ed ama invece, corrisposto, Santina (Giulia Andò), la sorella di Sebastiano, all’insaputa di quest’ultimo, scapolo e abituale frequentatore del locale lupanare, il quale nutre nei suoi confronti una ossessiva possessività, Pirandello a sua volta sta attraversando un momento di stasi creativa. Una “stranezza” dovuta forse all’aver indugiato con lo sguardo verso la luna o più probabilmente al ricordo delle crisi di nervi cui andava incontro la moglie Maria Antonietta (Donatella Finocchiaro), ora ricoverata in clinica, come confida all’amico Giovanni Verga (Renato Carpentieri), il quale, il quel di Catania, non intende prendere parte alle vacue celebrazioni previste per il suo compleanno, considerando come lui e i suoi lavori siano stati troppo presto dimenticati.
Tormentato dal non riuscire a rinvenire adeguata visualizzazione ai tanti personaggi che quotidianamente gli si presentano innanzi, alcuni richiamati da “quella servetta chiamata fantasia”, altri mutuati dal reale, dal quotidiano incontro di “tante maschere e pochi volti”, il nostro, ritornato a Girgenti, osserverà di nascosto le prove messe su dalla sgangherata compagnia Vella-Principato, al cui interno Sebastiano ha preso il posto della prima attrice, colpita da un lutto. Egualmente sarà spettatore la sera della prima, quando improvvisamente andrà in scena un’animata tenzone tra quanto recitato sul palcoscenico e la realtà del quotidiano, fino a giungere ad una inaspettata interazione con il pubblico, accadimento che gli suggerirà l’ideazione di una insolita opera teatrale, la cui sinossi vede sei personaggi interrompere le prove de Il giuoco delle parti, dichiarando al capocomico di essere alla ricerca di un autore che possa rappresentare il loro dramma… Presentato nella sezione Grand Public della 17ma Festa del Cinema di Roma, La stranezza, diretto da Roberto Andò, anche autore della sceneggiatura insieme a Massimo Gaudioso ed Ugo Chiti, è una realizzazione pregevole nel suo afflato complessivo, visivo e contenutistico, la cui costruzione narrativa riesce non solo a sorprendere, ma soprattutto ad avvolgere gli spettatori in un’atmosfera, come da titolo, piacevolmente straniante, una sorta di affabulante gioco a rimpiattino che vede rincorrersi fra di loro ironia e dramma, leggerezza e profondità, realtà e immaginazione, l’ordinarietà del quotidiano e la sua sovversione, vitalità e caducità, accogliendone le reciproche confluenze così da metaforizzare concretamente tematiche quali il travaglio proprio dell’ispirazione autoriale, rimarcandone il ruolo per certi versi necessario nel conferire esistenza ad una qualsivoglia rappresentazione che, pur traendo spunto dal reale, giunga infine alla trasmutazione di quest’ultimo in diverse e sfaccettate implicazioni. A quanto sosteneva Oscar Wilde, “la vita imita l’arte più di quanto l’arte imiti la vita”, si può tranquillamente contrapporre ciò che scrisse Pirandello in Uno, nessuno e centomila, ovvero “Una realtà non ci fu data e non c’è, ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere: e non sarà mai una per tutti, una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile”, che poi, a ben vedere, almeno a mio avviso, è quanto accade nell’ambito della creazione artistica, destinata a sopravvivere, nel bene o nel male, al suo autore.
La regia di Andò appare “classicamente” fluida, attenta in particolare ad una concreta valorizzazione delle interpretazioni attoriali, assecondando con garbo e misura la propensione al grottesco e al surreale propria del duo Ficarra e Picone, che diviene asse portante di determinati accadimenti e varie situazioni, rimarcandone il gioco di complementarietà nel rendersi l’uno spalla dell’altro, pur sempre basato sulla contrapposizione dei rispettivi caratteri, l’uno perennemente schizzato, stralunato, estroso e intraprendente, l’altro timido, apparentemente ingenuo e comunque testimone di una limpida purezza, umana ed artistica. Servillo, qui in un ruolo più defilato ma sempre camaleontico, offre alla figura di Pirandello una vibrante umanità, rendendone con toccante realismo quel delirio febbricitante proprio di una incessante creatività, messa costantemente alla prova dal rincorrersi, comunque vitalistico, delle felici intuizioni e degli altrettanto rapidi vuoti creativi, sostenendo in definitiva l’assunto di un quotidiano che trova nell’arte la sua ideale sublimazione, assecondando il rincorrersi di tribolazione e felicità nell’offrire spazio scenico a persone inclini a divenire personaggi, “accogliendone l’essere ma rifiutando la ragion d’essere”, come scriveva nella prefazione a Sei personaggi in cerca d’autore, inserita nella seconda stesura dopo la tumultuosa prima al Teatro Valle di Roma, nel 1921. Da segnalare in chiusura l’efficace montaggio di Esmeralda Calabria nel tenere ben tesa la fune sospesa tra fantasia e realtà e la cura profusa nelle scenografie (Giada Calabria) e nei costumi (Maria Rita Barbera), che trovano esaltazione nella fotografia (Maurizio Calvesi) intesa ad offrire “un respiro d’epoca” nel rendere il calore di una Sicilia vista nella sua vivida ruralità, rimarcando i risvolti ora grotteschi (oltre ai gironi infernali degli uffici comunali, difficile dimenticare la stanza dei morti sospesi, in attesa di sepoltura) ora drammatici (il confronto con Verga, sublime cammeo di Carpentieri, o i ricordi in forma onirica di Pirandello delle crisi nervose cui andava incontro la moglie) propri di una umana commedia, nel cui ambito, salendo su quel palcoscenico che ci è stato offerto una volta venuti al mondo, ciascun di noi dovrà recitare la propria parte, anche senza copione e affidandosi, a volte, al regista.
L’ha ripubblicato su Lumière e i suoi fratelli.
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