
Nel corso delle ormai trascorse festività natalizie, le mie visioni cinematografiche si sono focalizzate essenzialmente su tre realizzazioni italiane, due, La Dea Fortuna e Pinocchio, opera di autori a me molto cari, rispettivamente Ferzan Özpetek e Matteo Garrone, sia per le tematiche affrontate nell’ambito delle rispettive filmografie, sia per le suggestive modalità registiche riguardo la messa in scena complessiva, la terza, Tolo tolo, vede l’esordio alla regia di tale Luca Medici, nome all’anagrafe di Checco Zalone, del quale avevo apprezzato, con qualche riserva, i primi due film, diretti da Gennaro Nunziante, Cado dalle nubi (2009) e Che bella giornata, 2011. Inizio dunque a scrivere de La Dea Fortuna, film di cui Özpetek è anche sceneggiatore insieme a Silvia Ranfagni e Gianni Romoli: la trama, dopo un enigmatico piano sequenza iniziale, prende il via in quel di Roma e la narrazione, una volta presentati una serie di personaggi collaterali, va ad incentrarsi sulla coppia formata da Arturo (Stefano Accorsi), traduttore di testi antichi, ed Alessandro (Edoardo Leo), idraulico.

I due, profondamente diversi per indole caratteriale, l’uno rigido e vagamente spocchioso, l’altro più solare e disponibile, stanno insieme da tanti anni ma quella dirompente scintilla che li aveva fatti innamorare scatenando il fuoco della passione ora si è tramutata in una tenue fiammella, un cerino ormai prossimo a spegnersi, vuoi per un minimo soffio di vento, vuoi per naturale consunzione. Dormono ancora insieme, come due fratelli, tradimenti e malumori vari sono all’ordine del giorno, al pari di covati rancori mai del tutto sopiti, egualmente ad un senso d’inadeguatezza generale riguardo il ruolo che si intenderebbe ricoprire.
Tutto ciò sarà però destinato a cambiare quando una loro comune amica, Annamaria (Jasmine Trinca), li, pregherà di prendersi cura dei suoi bambini, Martina (Sara Ciocca) ed Alessandro (Edoardo Brandi), mentre lei si recherà in ospedale per una serie di accertamenti.
Una situazione inedita per la coppia, ora in procinto di confrontarsi con un senso di responsabilità da esternare certo nei confronti dei due pargoli ma anche, se non soprattutto, riguardo loro stessi …

A partire dal citato piano sequenza iniziale, dai toni quasi orrorifici, inteso a far intuire il potenziale covo di vipere che si cela all’interno del “buon salotto borghese” che va a contrapporsi alla felice casualità delle riprese relative ad una festa di matrimonio, Özpetek con La Dea Fortuna si riallaccia a temi ricorrenti nelle sue opere, in primo luogo la visualizzazione di quel particolare percorso che traccia la strada di una diversità non soltanto espressa a livello di identità sessuale, ma in forza di ogni espressione dell’ “io” interiore, capace di far leva sulle potenzialità sopite dei propri desideri e delle proprie convinzioni più profonde. Con naturalezza e conseguente scioltezza narrativa, ecco stagliarsi sullo schermo sia l’idea di una genitorialità che prende le distanze dalla genetica, sia la possibilità offerta ad una storia d’amore apparentemente giunta al capolinea di trasmutarsi, non senza qualche salutare scossone, in qualcos’altro, forse più profondo e con tendenza a divenire definitivo.

Quanto descritto potrà verificarsi in forza di un sentimento capace di superare la pura e semplice espressività corporale e l’egoistica affermazione di due identità per protendere anche alla felicità di altri esseri umani, i due bambini splendidi coprotagonisti, vera e propria cartina di tornasole nel far deflagrare l’intima autenticità del legame fra Arturo ed Alessandro.Özpetek ricorrendo ai noti “marchi di fabbrica” (la circolarità della macchina da presa intorno la tavola imbandita, una cerchia “alternativa” di amici sinceri quale valido succedaneo alla famiglia tradizionalmente intesa, intensi, insistiti primi piani volti ad indagare ogni atteggiamento, anche solo sotteso, nei riguardi di determinate situazioni) si muove con sana levità tra commedia e melodramma, offrendo opportuno risalto alle valide interpretazioni attoriali dell’intero cast (se Trinca e Preziosi si palesano quale a piacevole conferma, Leo stupisce per veridicità immedesimativa, egualmente a Barbara Alberti nei panni della glaciale madre di Annamaria).

Si offre risalto dunque alla caratterizzazione psicologica dei protagonisti, anche attraverso un semplice sguardo, un gesto, mentre le alterne vicissitudini andranno a confluire entro l’alveo costituito dalla rilevanza della Fortuna, ovvero, seguendo l’interpretazione che gli antichi Romani davano della dea bendata, quei tanti segnali, dall’impatto vario ed eventuale, che la vita spesso ci riserva sotto forma d’improvvisa e scombinata casualità: a noi il compito di farli fruttare adattandoli al nostro modo d’essere così da guardare con rinnovata fiducia al futuro, senza tradire tanto ciò che ora si è, quanto quel che si è stati, proiettandosi verso quel che si potrà divenire, sempre mantenendo la preziosità della propria essenza individuale.
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Il Pinocchio diretto da Matteo Garrone, anche autore della sceneggiatura insieme a Massimo Ceccherini, mi ha letteralmente incantato per la purezza delle immagini e l’atmosfera realistica e fiabesca al contempo, merito di una suggestiva fotografia (Nicolaj Bruel) e della felice resa degli effetti visivi, dal vago retaggio artigianale, vedi il make-up ligneo opera di Mark Coulier sul viso e sul corpo del piccolo Federico Ielapi nei panni del burattino (tecnicamente, non per fare i sofistici, sarebbe una marionetta), ma anche quello relativo a riuscite antropormofizzazioni, come il Grillo Parlante (Davide Marotta) o la Lumaca (Maria Pia Timo). Esaltando con accorti movimenti di macchina le scenografie (Dimitri Capuani) intese a rimarcare un’Italia pauperistica (splendida la sequenza che vede mastro Geppetto, un intenso ed al contempo misurato Roberto Benigni, lavorare di scalpello intorno ad una crosta di formaggio, per ricavarne qualcosa che possa definirsi commestibile), Garrone gira ad altezza di bambino, intento a prediligere uno stile meramente illustrativo e il più possibile fedele al testo originario di Collodi, del quale sceglie di adattare le pagine più salienti ed idonee ad essenzializzarne la morale che gli è propria, sempre limpida nella sua attualità, al di là di ogni possibile interpretazione.

Per potersi propriamente definire un essere umano, idoneo alla crescita, all’evoluzione formativa, così da recitare proficuamente la propria parte nel mondo, affrontando con eguale impeto gioie ed ambasce, occorre far leva sulla propria individualità e non cedere alle lusinghe in odore di uniformità omologante dei tanti imbonitori fraudolenti intenti a promuovere il “tutto e subito”, quali Gatto e Volpe, figure rese con efficacia, rispettivamente, da Rocco Papaleo e Ceccherini, anche se quest’ultimo a volte può apparire un po’ sopra le righe. Tenere a mente poi che non sempre la legge è eguale per tutti, specie se chi la applica è propenso ad una confusa visione personale (il giudice Gorilla, Teco Celio) e confidare in una fantasia salvifica, quest’ultima sostenuta da una fata dapprima bambina compagna di giochi (Alida Baldari Calabria) e poi figura materna ammantata di una sottesa spiritualità (Marine Vacth), opportuna guida verso il percorso di un’inedita maturità.

Ritengo che questa ulteriore rappresentazione delle avventure di Pinocchio avrebbe meritato un maggiore approfondimento di alcuni personaggi, in primo luogo il Mangiafuoco interpretato da un pur bravo Gigi Proietti, che non va al di là di una caratterizzazione sospesa tra il manierismo e la macchietta. Anche il Lucignolo di Alessio Domenicantonio non è altro che uno stereotipato scugnizzo, non certo quell’ “anima grande” esaltata da Pinocchio nel romanzo; egualmente può scriversi per l’assenza di molte situazioni idonee ad illustrare il tormentato passaggio della marionetta da birba matricolata a fanciullo assennato e responsabile (ad esempio la temporanea morte della fata con conseguente disperazione del nostro, “rivivisci, rivivisci!”). In nome del citato realismo, che contempla anche lo scricchiolio delle giunture lignee di Pinocchio o la bava lasciata dalla Lumaca al suo passaggio, per non parlare di un Paese dei Balocchi lontano dallo sfavillio ludico, la portata immaginifica si rende spesso solo potenziale, presente a tratti (la bella sequenza dei pesciolini che accorrono, inviati dalla fata, a mangiare l’involucro asinino), a volte anche con richiami degni di un film horror (la trasmutazione in ciuchini).

Come già ne Il racconto dei racconti, Garrone è quanto mai abile nel mettere in contatto la straordinarietà del magico e la “normalità” del quotidiano, affrontando dunque un percorso inverso a quanto attuato in altre sue opere, dove ha raffigurato la necessità dell’uomo di crearsi una realtà alternativa, un paradiso sulla terra ad uso e consumo delle proprie miserie, Nirvana etereo capace d’annullare una qualsiasi affermazione della propria individualità, solipsismo compensativo della rinuncia al mondo reale. Nello strizzare l’occhio, riprendendo quanto già scritto, a quel particolare mix di creatività ed artigianalità che, in particolare negli anni ’60-’70, ha permesso di ovviare a varie problematiche di realizzazione, l’autore non è esente da una certa meccanicità riguardo l’andamento complessivo della narrazione. Ci regala comunque un Pinocchio cui a volte sembra sì estranea una compiuta immedesimazione col fascino eterno proprio della fiaba, ma che nell’ambito della nostra produzione filmica più recente costituisce certo qualcosa di prezioso e raffinato nella sua esecuzione, apprezzabile per il senso del meraviglioso scaturente dal suggestivo ed incantevole fascino visivo, un po’ meno relativamente ad un trasporto più propriamente immaginifico.
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Concludo l’articolo dedicato ai film che ho visto durante le festività natalizie con Tolo tolo, regia di Luca Medici, anche sceneggiatore insieme a Paolo Virzì: ho apprezzato molto le intuizioni di scrittura, a partire dall’assunto “si è sempre meridionali di qualcuno” (espresso dal Professor Bellavista interpretato da Luciano de Crescenzo nel film da lui diretto Così parlò Bellavista), di cui si fa portatore Pierfrancesco Zalone, cittadino di Spinazzola, Puglia, con licenza di sognare, che, dopo il fallimento di un Sushi bar impiantato al paesello, si trasferirà in Africa, Kenya, per evitare l’orda dei parenti inferociti coinvolti nel progetto ed ora alle prese col pignoramento.
Qui lavorerà come cameriere, ma subirà presto le conseguenze della guerra civile, suo malgrado, ritrovandosi fuggiasco insieme ad Oumar (Souleymane Sylla), Idjaba (Manda Touré) ed il bambino Doudou (Nassor Said Birya), fino ad aderire ad un “viaggio della speranza” nell’intenzione di raggiungere il Liechtenstein, agognato paradiso fiscale…

Merito precipuo del film è quello di sbattere in faccia allo spettatore tutta l’indifferenza del mondo occidentale, rappresentata dal personaggio di Pierfrancesco, nei riguardi di coloro che sono costretti a fuggire dal proprio paese d’origine causa guerre o indigenza, quando non le due cose insieme, alla ricerca di un’inedita terra promessa, mutuandola progressivamente, fra un attacco di “fascistite acuta” e l’altro, in una empatica compartecipazione, trovandosi a vivere identiche disavventure e provare sulle proprie pelle medesime sensazioni. Quest’ultime non potranno certo trovare lenimento nell’applicazione dell’adorata crema al collagene, così come scarpe di lusso e vestiti firmati da mero simbolo ostentativo acquisteranno presto un precipuo valore utilitaristico. Ve ne è per tutti, beninteso, dalla carità pelosa di coloro che ritengono di stare dalla parte giusta, al razzismo respingente nascosto dal velo ipocrita del “prima gli italiani”, ma a mio avviso, come già avevo notato in Sole a catinelle (2013) e Quo vado? (2016), con Nunziante alla regia, le caratteristiche proprie del personaggio, in primo luogo l’insita potenzialità di divenire una nuova maschera del nostro cinema, in rappresentanza, triste specchio dei tempi, non più dell’uomo medio, di sordiana memoria, ma mediocre, individuo conscio della sua ignoranza, il quale affronta la vita con disinvoltura ed estremo candore, facendo sì che siano le varie situazioni ad adattarsi al suo modus operandi, appaiono come addomesticate nella loro estemporaneità, per essere inserite in una dimensione cinematografica più definita e compiuta.

Tentativo quello testé descritto sicuramente lodevole ma a scapito di una maggiore incisività dei personaggi secondari (come quello di Oumar) e della loro effettiva interazione col protagonista, la cui comicità si ritrova presto col fiato corto ad evidenziare una sovrastimata capacità di mattatore, vedi certe intuizioni geniali ma non efficacemente sostenute dalla regia: ad esempio il naufragio della nave dei disperati che evolve in un numero di nuoto sincronizzato o la lotteria per assegnare agli immigrati un porto di sbarco, si risolvono in una sorta di sequenze autoconclusive, prive di uniformità, per non parlare di un finale confuso, ma anche velleitario, che dapprima volge alla metacinematografia, poi straripa in un cartoon a metà strada fra Lo Zecchino d’Oro e Mary Poppins.

L’impressione è che Medici abbia disseminato lungo l’iter narrativo una serie di tagliole lasciando però allo spettatore il compito di decidere se farle scattare o meno, ovvero di prendersi la responsabilità del susseguirsi di determinati avvenimenti o smarcarsi da essa, non incidendo più di tanto col bisturi della satira realmente cinica e dell’ironia ferocemente caustica che era propria della commedia all’italiana d’antan. Onore al merito, comunque, perché Tolo tolo affronta di petto e senza mediazione alcuna un tema di scottante attualità, con piglio realistico e, come già scritto, molte trovate felici, cui aggiungerei l’emblematico personaggio del disoccupato che gradualmente occupa cariche politiche sempre più rilevanti, restando il cialtrone di sempre, servendosi del potere come scudo, o la sequenza stile musicarello sulle note di Italia, Mino Reitano, dove il nostro paese assume una connotazione effettivamente multietnica, Nazionale di calcio compresa, destinate però a restare tra coloro che son sospesi. Felicità per gli alti incassi certo, ma con una distribuzione “macchina da guerra”… Mi piacerebbe constatare, e concludo, eguali sforzi profusi per ben altre realizzazioni.
4 risposte a "Film visti durante le Feste: La Dea Fortuna/Pinocchio/Tolo tolo"