
Lo scorso mercoledì, 2 dicembre, ci ha lasciato la modella ed attrice americana Pamela Tiffin (Oklahoma City, 1942), molto popolare nel nostro paese a partire dagli anni ’60, una volta che divenne protagonista di vari film, quali, fra i più famosi, Straziami ma di baci saziami (Dino Risi, 1968) o l’episodio La moglie bionda, per la regia di Luciano Salce, tra i tre di cui era composto Oggi, domani, dopodomani, 1965 (L’uomo dei cinque palloni, Marco Ferreri e L’ora di punta, Eduardo De Filippo, gli altri due). Intrapresa la carriera di modella, Pamela esordì al cinema dopo che venne notata, mentre si trovava ad Hollywood per il Giorno del Ringraziamento, dal produttore Hal B. Wallis, che le propose un provino per un film di prossima produzione, tratto da una pièce di Tennessee Williams, Summer and Smoke, che avrebbe visto alla regia Peter Grenville; pur non molto convinta della sua capacità attoriale, Pamela accettò e conseguì una nomination ai Golden Globe in qualità di miglior attrice debuttante, riconoscimento replicato, con l’aggiunta della candidatura come miglior attrice non protagonista, nel 1961, dopo che Billy Wilder la volle fra i protagonisti di One, Two, Three (Uno, due, tre!), basato sul lavoro teatrale Egy, kettö, három (1929) di Ferenc Molnár.

L’attività sul grande schermo proseguì prendendo parte ora a commedie (State Fair, Alla fiera per un marito, 1962, José Ferrer; Come Fly with Me, Appuntamento fra le nuvole, 1963, Henry Levin), ora a titoli quali Detective’s Story (Harper, 1966, Jack Smight) o The Hallelujah Trail (La carovana dell’alleluia, 1965, John Sturges), per poi trasferirsi in Italia intorno la metà degli anni ’60, rimanendovi fino al 1974, quando decise di far ritorno in America e ritirarsi dalle scene così da dedicarsi alla famiglia. Nel nostro paese il suo particolare fascino, suggestiva mescolanza di candore, sensualità ed ironia, trovò modo d’esprimersi in varie commedie nostrane, ad iniziare da Delitto quasi perfetto (Mario Camerini, 1966), anche se fra tanti titoli (ad esempio L’arcangelo, 1969, Giorgio Capitani; Il vichingo venuto dal sud, 1971, Steno; Giornata nera per l’ariete, Luigi Bazzoni, 1971; E se per caso una mattina… , Vittorio Sindoni, 1972), la sua interpretazione veramente memorabile resta, almeno ad avviso di chi scrive, quella di Marisa Di Giovanni (doppiata da Flaminia Jandolo) operaia a Sacrofante Marche, dove sarà raggiunta dal barbiere Marino Balestrini (Nino Manfredi), innamoratosi, ricambiato, della fanciulla nel corso di una manifestazione folcloristica nella Capitale, nel citato Straziami ma di baci saziami, cui affido il ricordo, riproponendo, rivisto, un mio articolo scritto nel 2012.
********************************************

Straziami ma di baci saziami testimonia la capacità che aveva un tempo il nostro cinema di dar vita a qualcosa di diverso, nel caso specifico da quella che allora era l’impostazione tipica della commedia all’italiana, affidandosi ad una sceneggiatura estremamente valida (Age & Scarpelli) e ad una regia professionale come quella di Dino Risi, tra l’altro autore anche del soggetto.
Il risultato finale potrà forse apparire un po’ scomposto, ma lascia comunque il segno, vuoi per la beffarda ironia di cui il film è soffuso, vuoi per la bravura degli interpreti: Nino Manfredi, piuttosto misurato, la graziosa Pamela Tiffin, ingenuità e malizia, un Ugo Tognazzi d’antologia, senza dimenticare la capacità di dare risalto anche a brevi ma efficaci caratterizzazioni, offerte, per esempio, da attori del calibro di Gigi Ballista.

Roma, fine anni Sessanta. Durante le celebrazioni della Giornata folcloristica nazionale, scocca il classico coup de foudre tra Balestrini Marino (Manfredi) e Di Giovanni Marisa (Tiffin), uno sguardo e qualche breve scambio di parole sono sufficienti perché l’uomo, barbiere di Alatri, si trasferisca a Sacrofante Marche, il paese di lei. Il padre di Marisa si oppone alle nozze, per cui i due sono pronti a gettarsi sotto un treno, ma l’intervento salvifico della divina provvidenza chiamerà a sé il genitore: la strada ora sembrerebbe libera, però una “lingua sporca” insinua dubbi a Marino sulla purezza della fidanzata, la quale, sconvolta, fuggirà a Roma. Dopo alterne vicende, compreso un tentativo di suicidio da parte di Marino, con rinascita grazie ad una vincita al lotto, i due si rincontreranno, peccato che Marisa sia ormai sposa di Umberto (Tognazzi), sarto sordomuto…

Diretto da Risi assecondando, in apparenza, una linea ingenuamente pop già dal titolo (un verso della canzone Creola,’26, Riff, alias Luigi Miaglia), evidente anche nella fotografia e nel commento musicale di Armando Trovajoli (intervallato da Io ti sento, cantata da Marisa Sannia), Straziami ma di baci saziami irride con sinuosa cattiveria la letteratura popolare, il classico feuilleton ottocentesco, per arrivare al cinema di Matarazzo, che si ciba proprio del citato genere, passando per le vie del melodramma, del fumetto e del fotoromanzo, quest’ultimo chiaro modello nella visualizzazione dei singoli avvenimenti, veri e proprio capitoli con tanto di didascalia.

Colpisce, poi, l’ inveterato cinismo, apprezzabile o meno, nel rappresentare le classi sociali che a tali fonti si abbeverano e ne improntano il proprio modus vivendi, descrivendo un’Italia in fase post boom economico, ma ancora sospesa tra tradizione contadina, presente nei piccoli centri, e modernità urbana, con già qualche traccia d’alienazione o comunque difficoltà d’integrazione.
Difficile resistere, ridendo amaro, alla scena in cui i due innamorati declinano i versi de L’immensità di Don Backy (bella canzone, per inciso) come fossero quelli dell’ Infinito leopardiano, disquisendo su tutti i possibili rivoli esistenziali, o alla visualizzazione della forzata separazione immedesimandosi in una scena de Il dottor Zivago.

Ma ve ne è anche per il pietismo d’accatto, una soluzione standard per ogni problema, messo in atto dai centri d’aiuto, impersonato da un dottore col pensiero rivolto alle festività natalizie, cui si rivolge Marino ormai scombussolato dalle medicine, non dimenticando, infine, l’interpretazione, il politically correct è ancora di là da venire, del sordomuto offerta da un Tognazzi in gran forma (vedi la scena in cui ordina per telefono due caffè al bar, di cui uno decaffeinato). Ecco quindi un esempio di film “medio” (i capolavori di Risi sono altri), colorato, vivace, piuttosto folk se vogliamo, con qualche evidente lungaggine prima di arrivare ad un prevedibile finale, che riesce però a rendere ancora oggi impietoso il confronto a danno di molte attuali commedie nostrane, le quali, felici eccezioni a parte a far capolino, spesso, lungi da alcuna inventiva, se non registica almeno di scrittura, cavalcano uno stanco “ahò facce ridere”, tentando di volare alto per poi restare confinate nel solito tinello televisivo o riproponendo vecchi cliché, attualizzandoli in un maldestro tentativo di satira sociale.