Ci lascia la regista e sceneggiatrice Lina Wertmüller, morta oggi, giovedì 9 dicembre, a Roma, sua città natale (1928, Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Spanol von Braueich all’anagrafe), prima donna a conseguire la candidatura dall’Academy come migliore regista, per il film Pasqualino Settebellezze, 1977, protagonista un eccelso Giancarlo Giannini (le candidature al riguardo furono quattro, le altre tre andarono ad interessare la sceneggiatura, l’attore protagonista, il migliore film straniero). Un estro registico ironico e pungente, le cui note grottesche e surreali si rendevano negli anni sempre più marcate, quello della Wertmüller, tale da scuotere profondamente la classica commedia all’italiana, pur nell’ambito di una salace cornice bozzettistica, distante da una disamina sociale e politica propriamente detta, riuscendo comunque a sottolineare con sapida efficacia determinati mutamenti di costume del nostro paese. Una volta conseguito il diploma all’Accademia Teatrale Pietro Scharoff di Roma, Lina iniziò a lavorare nella compagnia L’Opera dei Burattini di Maria Signorelli ed in teatro, per poi adoperarsi in varie regie radiofoniche e televisive; il debutto sul grande schermo risale al 1963, come assistente alla regia di Federico Fellini per 8 ½. Nello stesso anno scrisse e diresse il suo primo film, I basilischi, il cui iter narrativo, nell’alternanza di ironia e poetico disincanto, tratteggiava l’acuto ritratto dell’immobilismo proprio di un emblematico paese del Meridione, evidenziando l’acquiescenza da parte delle nuove generazioni di quanto ereditato da coloro che sono venuti prima, assecondando, tra fatalismo e pigrizia, un tacito rebus sic stantibus all’insegna di quella amara constatazione espressa dalla voce narrante sul finale, che cita Giustino Fortunato: “Noi siamo quelli che la razza, il clima, il luogo, la storia, hanno voluto che fossimo …”
La descritta sensibilità registica volta alla disamina in chiave ferocemente satirica e grottesca del sociale trovò sbocco concreto in Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972), mirabilmente interpretato da Mariangela Melato e Giancarlo Giannini, dopo una lunga parentesi che vide l’autrice dedicarsi alla regia televisiva (Il giornalino di Gian Burrasca, 8 puntate sull’allora Canale Nazionale, dal 19 dicembre 1964 al 6 febbraio 1965) e a film rientranti in vari generi, dalla commedia Questa volta parliamo di uomini (1965), quattro episodi che vedevano protagonista Nino Manfredi, ai musicarelli con Rita Pavone Rita, la zanzara (1966, dove la regista si firmò come George H. Brown) e Non stuzzicate la zanzara (1967), fino al western (Il mio corpo per un poker–The Belle Starr Story, diretto insieme a Piero Cristofani, il quale si celava sotto lo pseudonimo di George Brown, mentre quello di Lina era Nathan Wich). L’incisività tagliente e corrosiva, con toni spesso urlati o trasmutati a dismisura verso l’assurdo, pur non dimenticando mai l’urgenza del messaggio politico-sociale, la si rinviene vivida e forte in lavori come Film d’amore e d’anarchia – Ovvero: “Stamattina alle 10 in Via dei Fiori nella nota casa di tolleranza” (1973), Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto (1974), il citato Pasqualino Settebellezze, La fine del mondo nel nostro solito letto in una notte piena di pioggia (1978).
La prosecuzione negli anni ’80 vedeva la dominanza di una non sempre convincente esagitazione nelle modalità espositive, ricordando comunque titoli certo rilevanti per la loro sagace ed acuta disamina delle trasformazioni in atto nella società, quali Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante da strada (1983), Sotto… sotto… strapazzato da anomala passione (1984), Notte d’estate con profilo greco, occhi a mandorla e odore di basilico (1986), In una notte di chiaro di luna (1989). Meno ispirate, almeno a parere di chi scrive, opere comunque interessanti quali, “pescando” nella sua filmografia, Io speriamo che me la cavo (1992), tratto dall’omonimo romanzo di Marcello D’Orta, Ninfa plebea (1996, dal romanzo di Domenico Rea), Metalmeccanico e parrucchiera in un turbine di sesso e di politica (1996), Ferdinando e Carolina (1999). Lina Wertmüller, andando a concludere, è stata un’autrice che ha saputo tracciare, all’interno di un settore ritenuto, come tante altre professioni, territorio esclusivamente maschile, fra pregiudizi, imposizioni produttive, scarso spirito collaborativo, un percorso per emergere, contrassegnato dalla passione, dalla voglia di raccontare, di mettere in scena determinate storie, un vissuto particolare, esperienze di vita, con i toni, per quanto mai propriamente misurati come scritto nel corso dell’articolo, dell’ironia, del dramma, della satira, del sentimento, della denuncia sociale, fino a giungere all’affermazione definitiva di sé, in un continuo confronto con le proprie ed altrui capacità, così da sciogliere le pastoie di ogni pregiudizio o stereotipo lungi a morire.
L’ha ripubblicato su Lumière e i suoi fratelli.
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