Ci lascia Jean-Luc Godard, morto oggi, martedì 13 settembre, a Rolle, Svizzera, dove risiedeva da tempo (Parigi fu la sua città natale, 1930). Approdato alla regia dopo i trascorsi di critico cinematografico (scrisse in particolare su riviste quali Arts e Cahiers du cinéma), Godard si adoperò dapprima nel girare una serie di cortometraggi, in un periodo compreso fra il 1954 e il 1958, per poi proseguire ponendo in essere una concreta rivoluzione del linguaggio della Settima Arte, realizzando opere dal forte valore innovativo, a partire da À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro, 1960) e proseguendo con titoli come, fra gli altri, Vivre sa vie (Questa è la mia vita, 1962), Le mépris (Il disprezzo, 1963, tratto dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia, 1954). Nell’ambito della Nouvelle Vague, la “nuova onda” del cinema francese che prese piede tra la primavera del ’59 e l’autunno del ’63, spazzando via l’accademismo ereditato dagli anni ’30 e sostenendo la “politica degli autori”, i diritti del regista quale padrone assoluto del linguaggio cinematografico, Godard ha espresso un modo diverso di “fare cinema”, libero da costrizioni, sanamente creativo, circoscritto, sempre e comunque, all’interno di un concreto e compiuto percorso artistico, capace di coniugare autorialità e limpidezza espositiva, ma anche di rinnovarsi costantemente, alla luce dei mutamenti sociali e delle nuove frontiere dell’audiovisivo, restando comunque fedele alla propria poetica di stile.
Infatti all’interno della sua filmografia si è soliti procedere ad una suddivisione considerando diversi periodi realizzativi (Alberto Farassino, Enciclopedia del Cinema Treccani, 2003), quello che dal folgorante esordio prosegue fino al 1975 circa, con tematiche che, sempre nella descritta libertà del linguaggio cinematografico, acquisiscono connotazioni via via più politiche, arrivando ad opere prettamente militanti a firma collettiva (Gruppo Dziga Vertov), cui segue una fase (1975-2006) di accostamento alle nuove tecnologie elettroniche, con opere che si focalizzano sulla purezza delle immagini, le quali si susseguono anche a scapito dell’iter narrativo, e su temi inerenti i rapporti familiari, prediligendo toni intimistici (Passion, 1982; Prénom Carmen, 1983; Je vous salue, Marie, 1984). La sua attività proseguì quindi sino ai giorni nostri, con realizzazioni che ne rimarcarono tanto la sensibilità cinematografica, quanto quella rivolta ancora una volta a tematiche storiche, sociali e politiche. Per ricordarne la figura, ripropongo, con qualche aggiornamento, la mia recensione di Bande à part, 1964, tra i miei film prediletti del cineasta francese, scritta qualche anno addietro per Lumiere e i suoi fratelli-Cultura cinematografica e crossmedialità nell’occasione della sua riedizione per le sale cinematografiche.
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Parigi, anni ’60. Franz (Sami Frey) ed Arthur (Claude Brasseur), due spiantati perdigiorno, percorrono le vie cittadine a bordo di una malmessa Simca cabriolet; sono diretti a Joinville, così da perlustrare i dintorni di una villa dove, a detta della comune amica Odile (Anna Karina), conosciuta frequentando una scuola d’inglese, il maggiordomo di sua zia Vittoria nasconderebbe all’interno di un armadio un’ingente quantità di danaro, che intenderebbero rubare. Odile, ragazza ingenua, sognatrice e romantica, anche lei come i due sfaccendati con l’aria da “duri” alla ricerca di un proprio posto nel mondo, accetta senza particolare riserve il corteggiamento, sfacciato e disinvolto, esternatole da Arthur, mentre Franz appare più ambiguo ed umbratile; si aggregherà dunque a loro per portare il piano a compimento, facilitandone l’ingresso nella dimora, ovviamente di notte, come imposto dalla tradizione dei romanzetti da quattro soldi o di certi filmetti americani, giusto il tempo di acquistare un libro alle bancarelle poste lungo la Senna e di una veloce visita al Louvre, tutta di corsa, così da battere, per due secondi, il record stabilito al riguardo da un turista americano, meno di dieci minuti. Non ogni cosa, però, andrà per il verso giusto, la notizia della somma di denaro è infatti giunta alle orecchie dello zio di Arthur, cui fa certo gola; il furto, in fondo, è un “lavoro” serio, non basta certo ingegnarsi nel mettere in pratica le fantasie scaturite dalla visione dei film al cinematografo, calza da donna calata sul viso e revolver in pugno …
Scritto e diretto da Jean-Luc Godard, adattando il romanzo Fool’s Gold di Dolores Hitchens (edito in Francia come Pigeon vole, nell’economica Série Noire della Gallimard), Bande à part rappresenta, oltre che un dichiarato omaggio alla letteratura pulp e alle produzioni hollywoodiane di serie B, il trionfo, scanzonato e sfrontato, di una piena e compiuta libertà espressiva, la macchina da presa tornava nelle strade, riprendeva contatto con la realtà, abbandonando l’artificio degli studi cinematografici, si cercavano attori nuovi, che potessero dare una patina di autenticità ai personaggi interpretati. Ecco allora in Bande à part una modalità di ripresa estremamente mobile, veloce, sempre al passo dei protagonisti, oltre che intenta a circoscrivere ogni elemento dell’ambiente circostante, le strade trafficate di Parigi, i suoi desolati sobborghi, la gente di passaggio, assecondando così la casualità, l’accadimento materializzatosi dinnanzi all’obiettivo ed offerto all’elaborazione degli spettatori, ottimamente supportata al riguardo dalla fotografia di Raoul Coutard, idonea ad esaltare le tonalità di un bianco e nero dal rarefatto gusto pittorico, così come da un incisivo e frammentato contrappunto sonoro (Michel Legrand) e da un montaggio piuttosto fluido (Françoise Collin, Agnès Guillemot).
La voce narrante dello stesso Godard interviene spesso nel corso della narrazione, offrendo spiegazioni ai vari avvenimenti, già accaduti o sul punto di compiersi, esibendo un linguaggio aulico in ironica contrapposizione all’ordinarietà di quanto verrà a visualizzarsi sullo schermo, andando ad aggiungersi alle tante digressioni presenti nel racconto, una su tutte la celebre sequenza della danza a tre all’interno di un bar, ripresa, fra gli altri, da Quentin Tarantino in Pulp Fiction, 1992 (d’altronde il cineasta americano aveva fondato una società di produzione denominata A Band Apart): Franz, Arthur e Odile eseguono i passi imposti dal ritmo della Madison Dance (così la definiva Karina), vicini ma distanti, apparentemente affiatati ma immersi in pensieri del tutto differenti, esternati sempre dalla suddetta voce narrante, per quanto divergenti verso un unico punto attrattivo, costituito dal personaggio femminile, suggestivo melange d’ingenuità, malizia e candido erotismo, ben reso da Anna Karina ed evidente soprattutto negli incisivi primi piani dei quali è oggetto. Buona anche la prova di Frey e Brasseur, nell’offrire l’immagine di due losers sognatori di un universo a loro dimensione, l’uno più romantico e tuttavia concreto, l’altro più brutale, cinico e diretto. Altre sequenze memorabili, sempre in odore di un costante fluire in divenire, la giocosa corsa all’interno del Louvre (sarà ripresa da Bernardo Bertolucci in The Dreamers, 2003) e, ancora prima, un minuto di silenzio al tavolo del caffè (35-40 secondi in realtà), con la totale assenza di qualsiasi suono, la lettura delle notizie dei quotidiani a voce alta da parte dei due amici o la lezione d’inglese, con la declamazione da parte dell’insegnante di un brano tratto da Romeo e Giulietta, mentre Arthur rivolge il suo plateale ed insistito corteggiamento ad Odile.
L’intero iter narrativo si snoda attraverso note lievi ed ironiche che si rendono progressivamente dolenti, malinconiche (la poesia di Aragon recitata da Odile in metropolitana, i cui versi vanno a coprire le immagini dei clochard stesi lungo i marciapiedi), con queste ultime a trovare il loro apogeo nel finale del film, quando, per dirla con Franz, all’interno di uno scenario tanto reale quanto astratto, non si sa se è il mondo che sta diventando sogno o se sia il sogno a diventare mondo, evidenziando infine l’impossibilità per le persone di formare un tutto. La narrazione si conclude come in un romanzo economico, in questo istante sublime dell’esistenza in cui nulla è in declino, nulla si degrada e nulla decade, sono le parole di Godard, il quale però non risparmia un finale, dopo tanta irriverente inventiva registica, colmo di acre sarcasmo nel riferimento ai citati B movie americani, preannunciando un seguito, ma questa volta in Cinemascope e Technicolor, di questa ironica incursione nel noir, riecheggiante il triangolo visto in Julies e Jim di François Truffaut, 1962. Bande à part in passato ha conosciuto qualche proiezione nelle sale italiane, con il curioso titolo Separato magnetico, per poi far ritorno nel febbraio del 2018 grazie a Movies Inspired, offrendo l’occasione di riscoprire o, perché no, di scoprire, invito rivolto alle nuove generazioni, l’arte conclamata propria dell’estrema libertà di “fare cinema”, coniugando il fermento della creatività autoriale nell’affrontare inedite declinazioni della Settima Arte e l’irrompere di vari mutamenti sociali con la fedeltà alla propria poetica di stile, riprendendo in chiusura quanto scritto ad inizio articolo.
L’ha ripubblicato su Lumière e i suoi fratelli.
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