Roma, anni ’60, Ferragosto. Per le strade assolate e pressoché deserte sfreccia una Lancia Aurelia B24 Spider, guidata in modo irruento da un uomo alla disperata ricerca di un telefono. Constatato come non vi sia alcun bar aperto, fermatosi a bere ad una fontanella, scorge alla finestra di un palazzo un giovane, al quale chiede il favore di telefonare ad una sua amica. Ricevuto l’invito a salire nell’appartamento, così da chiamare lui stesso, il nostro si presenta, Bruno Cortona (Vittorio Gassman), rivelando un carattere fin troppo estroverso, al contrario del ragazzo, Roberto Mariani (Jean-Louis Trintignant), timido studente di Giurisprudenza al quarto anno, insicuro e impacciato, incline ad essere oltremodo accomodante, mettendo solitamente in atto nei confronti delle persone tutto il contrario di quanto invece pensa, come accade ora, soverchiato dalla straripante personalità di Bruno, che, per sdebitarsi della cortesia, lo invita a mangiare fuori. Sarà l’inizio di un lungo viaggio lungo le arterie stradali di un’Italia in pieno boom economico, fra spensieratezza vacanziera al ritmo di twist e inedite modalità esistenziali, per lo più volte all’individualismo, andando a toccare diverse mete, come la tenuta in campagna degli zii di Roberto. Qui Bruno darà il meglio di sé nel contribuire a far svanire nel nulla l’arcadica ricostruzione perpetrata da Roberto riguardo la propria giovinezza, fino ad arrivare, sempre all’insegna del carpe diem, a Castiglioncello, dove lo smargiasso 40enne esternerà la consueta faccia di tolla nel farsi ospitare dalla consorte, dalla quale è separato ormai da anni. Apprenderà poi, perpetrando un’apprensione paterna d’accatto, che la figlia Lilli (Catherine Spaak), 15 anni, è fidanzata con un industriale meneghino avanti negli anni, Bibì (Claudio Gora), col quale scatterà l’inevitabile confronto/scontro fra scafata imprenditoria e l’arte di coltivare espedienti ed inseguire affarucci vari.
Dopo due giorni da quel casuale incontro, Roberto, pur consapevole dell’inaffidabilità di Bruno, ne è comunque affascinato, tanto da provare ad imitarne il vivere alla giornata, quel saper cogliere al volo ogni opportunità, smarcandosi quindi dalla rigida razionalità che gli è propria, che spesso lo porta a porsi in secondo piano nei confronti degli eventi in cui va ad imbattersi…eccoli di nuovo in auto, clacson bitonale in azione e un sorpasso dietro l’altro, sempre più euforici e spensierati, fino a quando, nei pressi di una curva… Da quanto può apprendersi dalla lettura del libro La commedia all’italiana. Il cinema comico in Italia dal 1945 al 1975 (Masolino d’Amico, Il Saggiatore Tascabili, 2008), Alberto Sordi sosteneva che l’idea di base de Il sorpasso, prossimo a festeggiare il 60mo genetliaco, fosse sua e del sodale Rodolfo Sonego: l’incontro col diavolo, nei panni di un intrigante sconosciuto, che con i suoi modi di fare riesce a prendere possesso della nostra anima, svuotarla del suo abituale “credo” fino a condurci alla dissoluzione annientatrice. Tale spunto venne poi ripreso e sviluppato da Dino Risi, regista del film, insieme ad Ettore Scola e Ruggero Maccari, che già in fase di scrittura diedero corpo ad un ulteriore sviluppo, oramai avviato verso la maturità, della commedia all’italiana propriamente detta, esaltandone la capacità di delineare una rappresentazione lucida e realistica di ambienti, situazioni e personaggi, alla luce dei vari accadimenti inclini alla mutazione dei costumi, permeata da un’ironia amara e beffarda, Ridentem dicere verum:quid vetat? (Orazio, Sermones, Libro I, 1, 24).
Con una narrazione in stile road movie (la pellicola, distribuita in America col titolo Easy Life, ispirò Dennis Hopper nello scrivere il soggetto di Easy Rider) ma anche, come credo già notato da molti, romanzo di formazione, in virtù dell’inedito risalto offerto all’io narrante di Roberto nell’esprimere attraverso il pensiero, riprendendo quanto già scritto, esattamente il contrario di quanto metterà in pratica, per timidezza o convenienza, nel relazionarsi con Bruno così come nei riguardi di quanti andrà ad incontrare nel corso dell’inedita avventura, Il sorpasso è mosso, nel morbido intercalare dei piani sequenza (memorabile l’apertura sullo scorrere dei titoli di testa, con l’insinuante motivo sonoro di Riz Ortolani) dallo sguardo autoriale ed antropologico proprio di Risi, il quale con accorte inquadrature dal taglio prossimo al documentario si sofferma sull’euforia ferragostana del “bel paese”, rimarcandone il ritrovato clima di serenità, suscitata quest’ultima dall’idea di un benessere illusoriamente alla portata di tutti, ormai insinuatasi tanto nell’ambito dell’agiata imprenditoria quanto in quello della media borghesia e che da lì a poco andrà anche a contaminare la purezza di quel sottoproletariato urbano esaltato da Pasolini, il quale nel 1975 in Lettere Luterane scriveva: “L’Italia – e non solo l’Italia del Palazzo e del potere – è un Paese ridicolo e sinistro: i suoi potenti sono delle maschere comiche, vagamente imbrattate di sangue: “contaminazioni” tra Molière e il Grand Guignol. Ma i cittadini italiani non sono da meno. Li ho visti, li ho visti in folla a Ferragosto. Erano l’immagine della frenesia più insolente. Ponevano un tale impegno nel divertirsi a tutti i costi, che parevano in uno stato di “raptus”: era difficile non considerarli spregevoli o comunque colpevolmente incoscienti”.
Una riflessione, quella espressa dall’intellettuale friulano, che credo possa felicemente accostarsi alla visualizzazione offerta dal film di un’Italia che, metaforicamente, appare abbacinata costantemente dalla luce solare (esemplare il lavoro sulla fotografia in bianco e nero di Alfio Contini), dove qualsiasi avvenimento o comportamento porta con sé le stimmate del repentino mutamento sociale in atto, vedi ad esempio la figura della giovane Lilli felicemente resa da Catherine Spaak nel suo fascino realisticamente acerbo, la sua voglia di smarcarsi non solo dal modello genitoriale quale esempio da seguire, ma anche da quello avanzato dai coetanei, rendendosi congrua cartina di tornasole nello svelare determinate contraddizioni e “sbalzi umorali” del maschio italico. Ovviamente a fare da filtro alle vicende narrate sono le due figure contrapposte di Bruno, Gassman al naturale, senza trucchi intesi ad alterarne i lineamenti come ne I soliti ignoti (Mario Monicelli, 1958), fanfarone e maneggione dagli echi sordiani (e in effetti il ruolo fu inizialmente pensato per l’Albertone nazionale), archetipo di tanti odierni cialtroni, eterno Peter Pan, smargiasso, esibizionista ed irresponsabile, e Roberto, Trintignant, doppiato da Paolo Ferrari, che con la sua presenza scenica naturalmente schiva ed elegante offre congruo proscenio alle tentazioni profuse nei confronti della classe sociale cui appartiene, la media borghesia, la possibilità di smarcarsi dai tradizionali valori e sporgersi verso “il nuovo che avanza” , all’insegna del “bel vivere”, lasciandosi irretire dal canto delle sirene di una società che già punta sull’apparenza e guarda con diffidenza chi appare “diverso”.
In realtà, a ben considerare le loro caratteristiche psicologiche, rimarcate anche dai bei dialoghi, ambedue appaiono in fuga da qualcosa o da qualcuno, una realtà a loro non confacente, un confronto con la sicumera danarosa propria del vincente per antonomasia, nella congiunzione perfetta di vita sociale e vita lavorativa, insieme sulla stessa strada, a bordo della stessa auto, nell’euforia incosciente di non avere nessuno di fronte a sé ad ostacolare la loro libera condotta, fino al sorpasso fatale comportante tragiche conseguenze per uno dei due, mentre per chi vi è scampato rimarrà, forse, il peso di una angosciosa responsabilità, nell’impossibilità comune di mutare, se non per un breve attimo, un percorso già segnato. Se quindi, andando a concludere citando un altro bel film di Risi, in Una vita difficile (1961), la sberla elargita dal giornalista Silvio Magnozzi (Sordi) al commendatore Bracci (Gora), diviene allegoria “di quell’Italia che sarebbe potuta essere e non è stata”, come scrive Fernando Di Giammatteo in Dizionario del cinema italiano (Editori Riuniti, 1995) e che ancora, a tutt’oggi, non è, egualmente qui il sorpasso funesto si rende simbolo di un paese alla continua ricerca di un’identità, al bivio fra la strada conducente alla concretezza dei valori e quella dominata da un progresso fine a se stesso, orfano di una concreta evoluzione, che, un po’ come il povero Stracci (Mario Cipriani) de La ricotta pasoliniana, probabilmente deve crepare per poter dimostrare di essere vivo.
Pubblicato su Diari di Cineclub N.108- Settembre 2022
L’ha ripubblicato su Lumière e i suoi fratelli.
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