
Presentato, in Concorso, al 72mo Festival di Cannes, Il traditore, diretto da Marco Bellocchio (anche autore della sceneggiatura insieme a Ludovica Rampoldi, Valia Santella, Francesco Piccolo), si palesa alla visione come un film suggestivo e potente, tanto dal punto di vista narrativo quanto figurativo, idoneo a riallacciarsi agli stilemi propri del più puro cinema d’impegno civile, i quali vengono d’altronde messi in scena filtrati dalle modalità di racconto proprie di un autore che negli anni per il tramite delle sue opere ha sempre affrontato la realtà ricercando al riguardo modalità espressive sempre inedite, fra rigore formale ed estrema lucidità. Scremando qualsiasi tentazione volta all’esaltazione ideologica e mantenendosi distante dalla retorica, Bellocchio visualizza la complessa figura di Tommaso Buscetta, “il boss dei due mondi”, interpretato con mimetica immedesimazione, fisica ma soprattutto psicologica, da Pierfrancesco Favino, il quale rende sullo schermo le ambiguità proprie di un essere umano che di “eroico” aveva certo ben poco, a parte l’improntitudine opportunistica di volgere ogni situazione, avversa o meno, a proprio vantaggio, nell’intento di garantire l’incolumità per sé e per i propri familiari.

Ecco allora Buscetta calarsi nei panni del collaboratore di giustizia, pur rifiutando l’etichetta di “pentito”, così da portare vanti una battaglia in cui il concetto di moralità andava ad assumere una personalistica interpretazione, ovvero prendere le distanze da Cosa nostra una volta che i suoi esponenti avevano messo in atto una guerra tra famiglie senza esclusione di colpi, uccidendo anche persone innocenti come i bambini, dimenticando quindi l’originaria “missione” volta a mettere in atto un’alternatività assistenziale nei riguardi di uno Stato colpevolmente assente e prono alle intese. Il tutto fino a quando le intuizioni di uomini come Giovanni Falcone non condurranno a scoperchiare il vasi di Pandora, rivelando per la prima volta i meccanismi gerarchici della cupola mafiosa; la narrazione prende il via dal 4 settembre 1980, giorno della festa di S. Rosalia, quando nella villa di Stefano Bontate (Goffredo Bruno) sono riunite, in vista di una fittizia riconciliazione, le famiglie che si contendono il traffico di droga in Sicilia, il clan dei palermitani e quello dei corleonesi, questi ultimi capitanati da Totò Riina (Nicola Calì).

Buscetta si aggira guardingo, vigila nervoso sugli sbandamenti del figlio ed avverte come un senso di estraneità a quanto sta per accadere, fiutando un imminente pericolo. Si rifugia allora in Brasile, dove gestirà i suoi traffici sotto falsa identità, fino a quando verrà arrestato dalla polizia brasiliana ed in seguito estradato in Italia, dove collaborerà con il citato giudice Falcone (Fausto Russo Alesi), consentendo con le sue rivelazioni la celebrazione, siamo nel 1986, del maxiprocesso all’interno dell’aula bunker del Tribunale di Palermo; nell’estate del 1992, dopo i sanguinosi attentati in cui trovarono la morte dapprima Falcone e poi Paolo Borsellino ed una volta arrestato Riina, il nostro, sotto regime di protezione negli Stati Uniti, farà ritorno in Italia intento a svelare i legami fra la politica e Cosa Nostra, facendo il nome, fra l’altro, di Giulio Andreotti, non reggendo però alle domande del legale di quest’ultimo, Franco Coppi (Alberto Storti), volte a screditarne l’attendibilità. Il boss ormai è solo, la sua parabola discendente è appena iniziata …

Rigoroso ed essenziale nella messa in scena complessiva, Bellocchio scansa abilmente l’epicità tragica delle varie gesta malavitose, tanto che le tante uccisioni perpetrate dai clan mafiosi “l’un contro l’altro armati” vengono freddamente conteggiate da un contatore elettronico visualizzato sullo schermo, esseri umani “caduti sul campo” in nome del nulla, destinati semplicemente a fare numero; l’autore “gioca” poi con l’intarsio alternato fra piani sequenza e primi piani ravvicinati (le sequenze dell’interrogatorio tra Falcone e Buscetta o quelle nell’ambito del maxiprocesso), così da rimarcare la contorta psicologia degli imputati, i quali metteranno in atto una teatralità diversiva: ciascuno di loro (esemplari al riguardo le figure di Pippo Calò e Totuccio Contorno, magistralmente rese, rispettivamente, da Fabrizio Ferracane e Luigi Lo Cascio) tende infatti a portare acqua al proprio mulino, mettendo agli atti una personale visione delle cose del tutto in linea con il ruolo che hanno deciso d’interpretare da quando sono entrati a far parte dell’organizzazione criminale, difendere cioè quella “rispettabilità” che si sono costruiti negli anni, ben consapevoli d’altra parte, come da tradizione italica, che la soluzione dei tanti, troppi, misteri potrà essere intuita ma mai propriamente rivelata.

Avvolto da una fotografia cupa (Vladan Radovic), a volte quasi opprimente nel volersi fare tutt’uno coi personaggi, attraversato da una colonna sonora (Nicola Piovani) sempre funzionale nel circoscrivere determinate situazioni, Il traditore poggia su una suadente compostezza nel sostenere raffinatezza visiva e senso popolare della drammaturgia, veridicità cronachistica (l’uso dei materiali d’archivio) e ricostruzione in nome della creatività artistica, giungendo ad un bellissimo finale che toglie definitivamente il velo pietistico e compassionevole steso sull’uomo ormai stanco e malato che attende, fucile sotto il braccio, una morte che potrebbe giungere anche da quanti intendano vendicarsi del suo tradimento, ancora prima che dallo scatenarsi della malattia; ecco congiungersi ciò che ora si è a quello che un tempo si è stati, un soldato fedele capace di attendere anni prima di portare a termine un mortale incarico che gli era stato commissionato, in nome di un codice etico del tutto personale a cui aveva improntato la propria condotta, come scritto nel corso dell’articolo, la brutale razionalità di chi ha servito coerenza essenzialmente nei riguardi della propria persona, un essere umano come tanti, intento a recitare la sua parte sul palcoscenico della vita (Shakespeare): “il mestiere di uomo, per Tommaso Buscetta, è stato ancora più difficile. E ha fatto male soprattutto a se stesso. La solitudine è la sua difesa e anche la sua cella, dalla quale non uscirà mai.” (Il boss è solo, Enzo Biagi, Collezione I libri di Biagi, Arnoldo Mondadori Editore, 1986).
L’ha ripubblicato su apostrofi a sude ha commentato:
“Il traditore” è fra i titoli italiani selezionati per una nomination agli European Film Awards 2019 insieme a “Dafne” (Federico Bondi), “La paranza dei bambini” (Claudio Giovannesi), e “Fiore gemello” (Laura Luchetti), oltre a rappresentare l’Italia alla 92ma edizione degli Academy Awards nella categoria International Feature Film Award.
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