Ricordando Pier Paolo Pasolini: Accattone (1961)

Pier Paolo Pasolini (Il Friuli)

Dalle pagine del blog nel corso degli anni ho ricordato spesso Pier Paolo Pasolini, pubblicando stralci di alcuni suoi articoli, varie poesie, frasi riprese da interviste e mie recensioni relative alle sue realizzazioni cinematografiche, pubblicazioni che a breve saranno riunite all’interno di una specifica categoria. La sua figura, così sfaccettata e per certi controversa se non contraddittoria, mi ha infatti affascinato fin da quando ero studente liceale, dovendo ringraziare al riguardo la professoressa d’Italiano, che non inserì lo studio delle sue opere all’interno del programma scolastico, così come di altri autori del ‘900, affermando, se non ricordo male, che fosse una personalità sopravvalutata: spinto allora dalla curiosità iniziai ad accostarmi alla lettura dei suoi romanzi e delle sue poesie, oltre che alla visione di qualche suo film, fino a maturare nel tempo l’idea di come Pasolini possa senz’altro considerarsi una personalità per molti versi unica nell’ambito del panorama culturale proprio del ‘900 italiano, se non altro per la lucidità ed indipendenza di pensiero, protese entrambe alla ricerca, ininterrotta, di una personale Verità, sfruttando ed adattando al proprio pensiero molteplici forme d’espressione idonee a poterla individuare. Una persona, ancor prima che un intellettuale, permeato da una particolare vitalità, spesso da lui stesso rimarcata: “Amo ferocemente, disperatamente la vita. E credo che questa ferocia, questa disperazione mi porteranno alla fine. Amo il sole, l’erba, la gioventù. L’amore per la vita è divenuto per me un vizio più micidiale della cocaina. Io divoro la mia esistenza con un appetito insaziabile. Come finirà tutto ciò? Lo ignoro”.

Però, personale sensazione, ancor più che la sua vita, è stata la sua tragica morte a divenire oggetto di scandalo e clamore, sfruttata e vilipesa, anche se, sempre riprendendo le sue parole, la morte “non è nel non poter comunicare, ma nel non poter essere più compresi” e quindi per dare un senso al centenario della sua nascita, al di là delle celebrazioni di rito, credo sia opportuno confrontare quanto espresso da Pasolini nel corso della sua esistenza tramite molteplici mezzi, dalla poesia al romanzo, passando per il cinema, la televisione e i giornali, con quanto è sotto i nostri occhi nel corso del rituale incedere quotidiano: il culto dell’immagine pura e semplice, soverchiante l’impatto più propriamente umanistico, la deriva di una società alla ricerca di un senso che vada al di là di un progresso prettamente materiale e al cui interno la stessa cultura assume le fattezze di un qualsivoglia prodotto di consumo da porre sullo scaffale in offerta speciale, il benessere stimato sulla base di parametri quali profitto e possesso, la perdita progressiva della propria identità storica e culturale, il fallimento di qualsivoglia ideologia, sacrificata quest’ultima sull’altare del personale tornaconto. Se rendiamo concreto il suddetto confronto, ecco che tutto ciò che è di Pasolini assume la consistenza di una visione forse a tratti ingenua, ma pregna di quella sincerità e concretezza lungimirante che gli è sempre stata propria, tuttora stimolante ai fini di un opportuno dialogo costruttivo, ove si rinvenissero “uomini di buona volontà” propensi a porlo in essere, in nome di “una nuova resistenza: qualcosa che contraddica radicalmente la vita come si sta configurando all’uomo moderno, la sua grigia orgia di cinismo, ironia, brutalità pratica, compromesso, conformismo, glorificazione della propria identità nei connotati della massa, odio per ogni diversità, rancore teologico senza religione”. (Pier Paolo Pasolini, da Il Giorno, 6 marzo 1963)

(SensCritique)

Soffermandoci sui rapporti fra Pasolini e la Settima Arte, la sua attività sul grande schermo ha inizio in qualità di soggettista e sceneggiatore, collaborando al riguardo con, fra gli altri, Mauro Bolognini, Federico Fellini, Mario Soldati, Cecilia Mangini ed Attilio Bertolucci, per poi maturare l’idea di accostarsi alla regia quale ideale prosecuzione dell’attività letteraria, “con una totale impreparazione tecnica”, per sua stessa ammissione, che andava a trovare però compensazione in “una grande preparazione intima, una grande carica di passione cinematografica e del modo di sentire idealmente l’immagine cinematografica”, cui andava ad aggiungersi il personale “modo di vedere le cose”. Nell’estate del 1960 inizia quindi, coadiuvato da Sergio Citti, fratello di Franco, a sviluppare la sceneggiatura di quello che sarà il suo esordio da cineasta, Accattone, mentre nell’autunno dello stesso anno effettua delle riprese per la Federiz, casa di produzione messa su da Federico Fellini insieme ad Angelo Rizzoli e Clemente Fracassi per sostenere i nuovi autori nella realizzazione dei loro progetti: circa 150 metri di pellicola e fotografie di scena, illustrando al regista riminese come i suoi modelli ispiratori sarebbero stati Dreyer, Mizoguchi e Chaplin nel prediligere uno stile piuttosto semplice, dove il ricorso frequente ai primi piani avrebbe consentito una prevalenza dei personaggi rispetto ai paesaggi, ripresi invece in campo lungo, compensando la scarsa conoscenza tecnica avvalendosi delle suggestioni offerte nelle sue opere da un pittore come Masaccio. Una volta presa visione del girato Fellini però non ne fu del tutto convinto, tanto da interrompere il progetto, che trovò invece un convinto sostenitore in Bolognini, il quale a sua volta contattò il produttore Alfredo Bini: nell’aprile del 1961 si diede quindi il via alle riprese del film, con Bernardo Bertolucci aiuto regista e Tonino Delli Colli direttore della fotografia. Presentato alla 12ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, fu qui oggetto di violente contestazioni, per poi uscire in sala il 22 novembre, con il divieto, apposto tramite apposito decreto, ai minori di 18 anni, per la prima volta nel nostro paese.

Franco Citti (Berlino Magazine)

Ecco allora stagliarsi sullo schermo, abbacinata dalla forte luce solare che batte sulle borgate romane, la visualizzazione di quel microcosmo, vero e proprio “mondo a parte”, costituito dal sottoproletariato urbano già descritto da Pasolini nei romanzi Ragazzi di vita (Garzanti, 1955) e Una vita violenta (Garzanti, 1959), rappresentato da Vittorio Cataldi, detto Accattone (Franco Citti, doppiato da Paolo Ferrari), che vediamo seduto con aria indolente al bar con gli amici, sfaccendati al par suo, ladruncoli, ricettatori, intento a scommettere su un tuffo nel Tevere a stomaco pieno, sicuro di scampare alla morte certa, scientificamente “profetizzata” dal più istruito dei “compari”, “Ad Accattone manco o’ fiume se lo porta via!”. Il nostro vive in una casupola alla periferia della Capitale, dove ha dato accoglienza a Nannina (Adele Cambria), cinque figli a carico, moglie del mariuolo napoletano Ciccio, ora ospite delle patrie galere, dal quale ha “ereditato” la prostituta Maddalena (Silvana Corsini), sua compagna e fonte di sostentamento. Proprio da Napoli giungono quattro amici del citato Ciccio, inviati da quest’ultimo per scoprire chi l’abbia tradito e Vittorio non esiterà ad incolpare la sua protetta, che quindi verrà presa a botte dai lestofanti, denunciando quattro innocenti al loro posto e finendo incarcerata per falso. Rimasto senza fonte di reddito, Accattone chiederà invano aiuto alla moglie Ascenza (Paola Guidi, doppiata da Monica Vitti), che lavora in un modesto opificio dove si recuperano vecchie bottiglie.

Franco Citti e Franca Pasut (Cinefilia Ritrovata)

Qui lo sfaticato conoscerà Stella (Franca Pasut), ragazza mite, ingenua, figlia di una prostituta, finendo con l’innamorarsene, tanto che, dopo aver cercato di metterla sulla strada, si darà da fare per cercare un lavoro e trovatolo ne resterà sfiancato già dal primo giorno, decidendo quindi di mettersi in società con Balilla (Mario Cipriani) e Cartagine (Roberto Scaringella) per andare a rubare. Intanto la polizia, su denuncia di Maddalena, si è messa sulle sue tracce e il destino chiederà presto il conto ad Accattone, che già aveva sognato il suo funerale, riuscendo ad ottenere sepoltura in un angolo di terra baciato dal sole… In forza di un’evidente “verginità” nei confronti del mezzo cinematografico, Pasolini offre ad Accattone una magnetica espressività, propria del cinema degli albori, ovviando alla dichiarata mancanza di conoscenza riguardo le tecniche specifiche con una suggestiva combinazione di afflato poetico e gusto pittorico, dando vita ad un cinetismo narrativo e visivo che, con minimi movimenti della macchina da presa, si alimenta di un’alternanza fra primissimi piani, campi lunghi, controcampi panoramici, con sequenze piuttosto lunghe e senza stacco, al cui interno gioca un ruolo fondamentale l’uso dei dialetti, non filtrato da mediazioni letterarie e il ricorso alla musica di J. S. Bach, con le note de La passione secondo Matteo già presenti nello scorrere dei titoli di testa e poi lungo l’iter narrativo a rimarcare le scene di violenza, per un voluto, ricercato e straniante contrasto tra ciò che è “alto”, colto, e la bassezza greve della bestialità umana.

(Cinema Roma Pistoia)

L’uso della musica classica, al pari della didascalia che campeggia prima dei crediti iniziali, un estratto dal Canto V del Purgatorio (l’incontro tra Dante e Bonconte di Montefeltro, che salva l’anima in punto di morte invocando la Madonna, con conseguente disputa tra l’angelo del bene e l’angelo del male, che si vede sottrarre quanto gli spettava) dà poi al film, come intenzione dichiarata del suo autore, la caratterizzazione propria di un dramma epico-religioso, dove il protagonista, un intenso e toccante Franco Citti, scelto da Pasolini nella considerazione del suo essere “sempre pronto a dibattersi, difendersi, aggredire, per proteggere la sua intima decisione: il senso di non esistere che esplicava dentro di sé”, cammina lungo le strade polverose delle borgate come se portasse sempre sulle spalle “il legno infame”, assumendo i contorni propri di figura cristologica, come già notato da molti, immerso in un percorso spirituale di vittima predestinata. L’incontro con Stella, simbolo della Purezza e della Grazia, potrebbe ovviare ad un tragico destino, trovando però l’ostacolo rappresentato dallo squallore di una vita che può portare solo alla morte come speranza di salvezza, rito di passaggio per una rinascita, unica possibilità concessa agli “ultimi” di unirsi agli altri uomini, concretizzando quel distacco dal mondo terreno visto da Pasolini in forma di salvifica resurrezione degli umili e dei semplici, dei non corrotti, una volta lontani dalle storture del mondo, come reso evidente dall’ultimo respiro di Accattone (“Ah, mò sì che sto bene”), che potrebbe idealmente collegarsi alla morte di Stracci (Mario Cipriani), il ladrone buono in un film sulla passione di Cristo ne La ricotta (episodio diretto da Pasolini del film collettivo Ro.Go.Pa.G-Laviamoci il cervello, 1963), cui le parole del regista Orson Welles offrono una particolare benedizione: “Povero Stracci… Crepare, non aveva altro modo per dimostrarci che anche lui era vivo”.

(VIVIT)

Accattone richiama la tradizione neorealista nel ricorrere ad attori non professionisti, realmente abitanti di varie zone periferiche romane e nello sfruttare ambientazioni naturali (via Casilina, via Portuense, via Appia Antica, via Tiburtina, via Baccina, Ponte Sant’Angelo, Acqua Santa, via Manuzio, Ponte Testaccio, il Pigneto, borgata Gordiani, Centocelle, la Marranella, e Subiaco), senza fra l’altro ricercare particolari preziosismi riguardo ad esempio l’impiego della luce. Allo stesso tempo però travalica i suddetti stilemi, in quanto non vi è la semplice visione di una realtà disagiata, bensì una partecipazione diretta, dando voce, riprendendo quanto scritto nel corso dell’articolo, al sottoproletariato urbano, visto nella sua purezza ancora incontaminata, che sopravvive grazie ad una primitiva ingenuità e destinato da lì a poco a scomparire o ad ammantarsi di un’aura sempre più omologante, pur esternando sempre e comunque un’indomita vitalità. Da rimarcare la bellissima sequenza che vede Accattone sognare il proprio funerale, ammantata di ulteriori contrasti tecnico-narrativi (il montaggio di Nino Baragli che qui diviene ancora più secco e “tagliente”, la brusca alternanza fra momenti silenti e rumori extradiegetici, la luminosità polverosa da incubo notturno), dove ad impersonare il becchino troviamo Polidor, ovvero Ferdinand Guillaume, attore, regista e produttore cinematografico francese naturalizzato italiano dell’epoca del muto (anche noto con l’altro nome d’arte, Tontolini), così come nel cast è possibile rinvenire i nomi di Adriana Asti (Amore) e della scrittrice Elsa Morante, nel ruolo di una detenuta.

(Linkiesta)

L’opera prima di Pasolini, non del tutto ben accolta alla sua uscita, conseguì il Primo Premio per la Regia al Festival Internazionale del Cinema di Karlovy Vary nel 1962, un Nastro d’Argento per il Miglior Produttore (Alfredo Bini), mentre Franco Citti ottenne il Laceno d’Oro 1962 come Miglior Attore ed una candidatura ai BAFTA 1963 come Miglior Attore Protagonista Straniero.

Fondamentale per la stesura dell’articolo si è rivelata la lettura dei seguenti libri: “Lo cerco dappertutto”- Cristo nei film di Pasolini (Gabriella Pozzetto, Ancora editrice – Collana I maestri di frontiera, 2007); Pier Paolo Pasolini (Serafino Murri, Editrice Il Castoro Cinema, Prima Edizione Novembre 1994, Terza Ristampa Ottobre 2005).


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