Il 1° settembre 1922, cento anni fa, nasceva Vittorio Gassman (Gassmann all’anagrafe, Struppa, Genova), uno degli ultimi grandi attori italiani, estremamente carismatico in virtù della suggestiva combinazione fra una pulsante corporalità ed una forte istintualità comunicativa, capace di alternare con geniale ed estrema versatilità, ruoli intensamente drammatici, in particolare a teatro, ad altri, dalle tante, notevoli, sfaccettature, riduttivo definirli “comici”, che gli hanno permesso di entrare a far parte della schiera dei grandi della commedia all’italiana propriamente detta, insieme ad Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Nino Manfredi, senza dimenticare nel novero meravigliose interpreti femminili quali Monica Vitti o Franca Valeri. Eppure tra le sue dichiarazioni rimaste famose vi è quella che recita “Tra me e il cinema ci fu antipatia fin dal primo momento”. Il suo debutto sul grande schermo avvenne nel 1945 (Incontro con Laura, Carlo Alberto Felice); Gassman con quella affermazione forse voleva semplicemente rimarcare la sua già notevole e prestigiosa carriera di interprete teatrale, visto che aveva frequentato l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, esordendo poco più che ventenne, non ancora diplomato, in La nemica di Dario Niccodemi, accanto ad Alda Borelli, imponendosi durante il secondo conflitto come tra le più grandi promesse del palcoscenico italiano, mentre nel dopoguerra recitò al seguito delle più importanti compagnie teatrali, diretto da registi come Orazio Costa, Luigi Squarzina e Luchino Visconti. D’altronde il cinema si accorse tardi di una forse sottesa duttilità, soffermandosi sulle sue doti teatrali e trapiantando di peso sul grande schermo le sopra citate doti carismatiche e la notevole presenza scenica, dovuta alla corporatura atletica e alla voce autorevole, affidandogli ruoli di cattivo antagonista (indimenticabile il ghignante e sensuale villain Walter in Riso amaro, ’49, Giuseppe de Santis, che trovava il suo contraltare nel personaggio di Silvana reso dalla splendida Mangano), rendendolo spesso antipatico al grande pubblico e non riuscendo, pur con ormai trenta film girati, a trovargli una collocazione adeguata.
La svolta avvenne nel ’58 con I soliti ignoti, quando il regista del film, Mario Monicelli, certo memore del recente lavoro dell’attore in teatro ne I tromboni di Federico Zardi, dove veniva alla luce un certo fregolismo (Masolino D’Amico, La commedia all’italiana-Il cinema comico dal 1945 al 1975, Il Saggiatore Tascabili, 2008), gli affidò la parte del pugile fallito, e ladruncolo di mezza tacca, Peppe er Pantera, cambiandogli letteralmente i connotati (parrucca, fronte abbassata, naso finto, orecchie a sventola) e permettendogli di far sfoggio di una parlata “sporcata” da inflessioni romanesche ed afflitta a tratti dalla balbuzie (“è sc…scc…sscientifico!”, nello spiegare la bontà di un piano criminale). E così, contemporaneamente, prendeva vita tanto un nuovo tipo di commedia, dove la comicità non era più incentrata su gag, calcolati o improvvisati giochi di parole viranti al nonsense, ma su trovate umoristiche ben definite, che pur se volgenti nella macchietta, trovavano sempre le basi su un solida sceneggiatura (Monicelli, Suso Cecchi D’Amico, Age & Scarpelli), quanto un “nuovo” Gassman, che solo un anno più tardi si trovò a duettare con Sordi ne La grande guerra, sempre di Monicelli, suggestivo match tra ricercatezza espressiva e naturalezza, per poi divenire protagonista assoluto ne Il mattatore di Dino Risi, che sfruttava il titolo di una trasmissione televisiva di quegli anni: qui l’attore si metteva in gioco, anche con autoironia, dando vita a tutto il suo repertorio ed arrivare poi a plasmare con intensa efficacia nel ruolo di Bruno l’indimenticabile ritratto dell’italiano coinvolto nel boom economico, archetipo di tanti odierni cialtroni, eterno Peter Pan, smargiasso, esibizionista ed irresponsabile, nel capolavoro dello stesso regista, Il sorpasso, ’62, road movie attraverso le strade di una Italia in divenire, sulla scia di un benessere economico che iniziava ad interessare anche le classi meno agiate.
Monicelli ne esaltò dunque l’indole ironica ed anche autoironica, vedi L’armata Brancaleone, 1966, ed il suo seguito Brancaleone alle Crociate, ’70, dove Gassman tra teatralità e fregolismo, ci offre il ritratto di un insolito cavaliere, Brancaleone da Norcia, smargiasso e sbruffone, un po’ ronin, il samurai senza padrone, anche nel look, e un po’ Don Chisciotte, fermo seguace di un codice cavalleresco in cui sembra credere solo lui, nonostante la vita gli offra, spesso ed inesorabilmente, il conto: “A tuo ammaestramento. Sai tu qual sia, in questa nera valle, la risultanza e il premio d’ogni sacrifizio umano? Calci nel deretano! D’ora in poi verrò nomato lo cavaliere amaro!”, rivolto a Taccone (Gianluigi Crescenzi); Risi invece ne mitigò l’indole istrionica, ponendo in rilievo nei personaggi che andava ad interpretare determinati toni malinconici, attraversati a volte da un certo cinismo o comunque da uno sprezzante senso della vita, inteso a coinvolgere anche quanti gravitano loro intorno: emblematici al riguardo oltre al citato Bruno de Il sorpasso, il capitano in pensione Fausto Consolo di Profumo di donna, 1974, tratto dal romanzo di Giovanni Arpino Il buio e il miele, 1969, l’imprenditore Lorenzo Santenocito protagonista insieme ad Ugo Tognazzi, nei panni dell’irreprensibile giudice istruttore Mariano Bonifazi, de In nome del popolo italiano, 1971, allegoria dal sapore quasi “profetico” (il primo elimina le prove che scagionerebbero il secondo dall’accusa d’omicidio, perché rappresenta tutti i mali in cui versa il paese), la cui narrazione è attraversata da toni sempre più amari e disillusi, l’ironia non può soccorrere alla disattesa speranza di un sistema migliore: all’interno di un contesto storico dove si assiste progressivamente al venir meno della politica e di quell’apparato ideologico su cui aveva posto le fondamenta.
Quanto scritto riguardo il sodalizio Gassman- Risi lo si può replicare nell’ambito delle prove offerte nei film di Ettore Scola, che inizialmente ne assecondò la propulsione istrionica volta al “leggero”, come nel suo esordio registico con la pellicola ad episodi Se permettete parliamo di donne, 1964, o nei successivi La congiuntura, 1965, e L’arcidiavolo, 1966, per poi, con C’eravamo tanto amati, 1974, farne, offrendogli il ruolo dell’opportunista Gianni Perego, avvocato senza scrupoli nella sua scalata all’agiatezza economica, il simbolo di una società italiana moralmente in declino, sempre più orfana di un progresso concreto e non solo materiale. Di rilievo, sempre diretto da Scola, il ruolo di Mario ne La terrazza, 1980, da molti considerato il canto del cigno della commedia all’italiana, caustico ritratto di certa intellighenzia del bel mondo culturale e dello spettacolo, pateticamente convinta di essere sempre dalla parte del giusto, ma soprattutto quello del “buon borghese” Carlo ne La famiglia, 1987, dove i “salti” temporali dal 1906 al 1986 creano una perfetta simbiosi fra eventi storici, quotidianità “inquadrata” (il corridoio in penombra come luogo di memoria e transito delle varie generazioni) e le mutazioni del costume sociale. Sarebbero tanti in verità i titoli da citare, magari soffermandosi anche sulla più recente attività teatrale, almeno sino ad inizio degli anni’90, ma mi sono volutamente soffermato, anche per non tediare, sulle tappe più importanti della carriera di Vittorio Gassman, navigando a vista fra le mie sensazioni e ricordi, così da far riemergere la memoria di un attore che ha permeato il cinema italiano della sua forte personalità, conciliando l’irruente ego con una geniale e vitale poliedricità. (Rielaborazione ed approfondimento di un mio precedente articolo pubblicato il 29/06/2020)
L’ha ripubblicato su Lumière e i suoi fratelli.
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